di Andrea Follini
Non c’è solo Gaza. C’è un terreno di scontro tra Israele e Palestina sul quale tutto passa sotto tono, nell’informazione internazionale. Dallo scorso 7 ottobre, quando a causa dei terribili attacchi terroristici di Hamas in territorio israeliano è ripresa la sanguinosa guerra israelo-palestinese, mentre tutti ci siamo concentrati a porre attenzione a quanto stava succedendo a Gaza, anche in virtù dell’altissimo numero di vittime civili, più di trentaduemila, che li si sono registrate, in Cisgiordania, nei territori occupati, le violenze ed i soprusi sui civili palestinesi, perpetrati dai coloni israeliani, ma anche dai militari di Tel Aviv, sono aumentati a dismisura. Con buona pace del governo Netanyahu che non solo non condanna questi comportamenti, ma invece acuisce la tensione, continuando nel suo progetto di espansione, depredando i palestinesi della loro terra. Una pratica che ha raggiunto livelli tali da far intervenire anche l’Unione europea, che a dire il vero fin ora in tutta la vicenda palestinese è stata piuttosto silente. Con una nota diffusa nei giorni scorsi l’Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza Josep Borrell ha fermamente condannato l’annuncio del Ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich (il fondamentalista leader del partito nazionalista Sionismo Religioso) secondo il quale più di ottocento ettari di terreno in Cisgiordania verrebbero dichiarati “terre statali”. Si tratterebbe della più grande confisca dai tempi degli accordi di Oslo e non certo un segnale rassicurante per i palestinesi. La nota di Bruxelles, prodotta dopo che si è svolto il recente Consiglio europeo, continua indicando che gli insediamenti illegali rappresentano una grave violazione del diritto umanitario internazionale, esortando Israele a fare un passo indietro su questa decisione, ribadendo la propria indisponibilità a riconoscere confini territoriali diversi da quelli concordati nel 1967, a meno di un accordo tra le parti. La Ue ribadisce inoltre la sua determinazione a combattere il terrorismo e ad impegnarsi per la sicurezza di Israele, condannando fermamente Hamas, ma ribadendo che proprio l’espansione degli insediamenti vanno contro quest’obiettivo, alimentando le tensioni e minando la prospettiva di una soluzione a due Stati, che rimane l’unica garanzia sostenibile di sicurezza a lungo termine sia per gli israeliani che per i palestinesi. A New York, intanto, l’approvazione della risoluzione Onu per il cessate il fuoco immediato a Gaza, la liberazione degli ostaggi israeliani ancora nella mani di Hamas e l’ingresso massivo degli aiuti umanitari nella Striscia, apre uno spiraglio importante nella sanguinosa guerra israelo-palestinese. Ma tale risoluzione, è bene ricordarlo, non riguarda la Cisgiordania, dove tutto è destinato a continuare. Le Nazioni Unite hanno registrato più di cinquecento attacchi di coloni armati contro civili palestinesi, eseguiti in Cisgiordania ed a Gerusalemme Est in questi mesi. Anche in questi territori la strategia del governo israeliano è la stessa: bloccare la libera circolazione dei palestinesi e soprattutto delle merci, impoverendo la già precaria economia e portando alla disperazione i civili. Per i palestinesi, non poter raggiungere Israele, dove prima del 7 ottobre si aveva un lavoro, significa fare la fame. Non poter raggiungere le zone coltivate o i propri animali, priva i contadini ed i pastori palestinesi di quel minimo di sostentamento che permette loro e le loro famiglie di sopravvivere. Posti di blocco ovunque, controlli su controlli, spesso esercitati non dai militari, ma dai coloni stessi, armati, che decidono sul momento del tuo futuro e della tua vita. Se a questo si aggiunge la sottrazione delle terre, diventa chiaro quale sia l’obiettivo. In Cisgiordania, secondo Save the Children, almeno 111 famiglie, tra cui 356 bambini, sono state sfollate solo nel primo mese di conflitto. Dal 2022, quasi 2.000 palestinesi sono stati costretti a lasciare le proprie case a causa della violenza dei coloni, numeri che dal 7 ottobre si sono impennati del 43%. E sulle povere case così “liberate”, passano i bulldozer dei coloni, per rendere chiara quale sia la strategia. Senza che l’ovunque presente esercito israeliano muova un dito. Esercito che invece in Cisgiordania si è impegnato a distruggere strade ed infrastrutture, specie le cisterne per l’acqua, come denunciato dalla Mezza Luna Rossa che indicava anche l’uccisione, da ultime, di quattro persone nel campo di Nur Shams negli scorsi giorni. Continua in questo modo la lenta ed inesorabile attuazione di un processo, definito e pianificato dal governo Netanyahu ed in esso dalle sue anime più estremiste, che vuole la vita del popolo palestinese resa impossibile, sia dal punto di vista sociale, che economico…che demografico. Un popolo senza terra non è più un popolo. E questo gli israeliani, più di tutti, dovrebbero ricordarlo.