Chi non vuole applicare la legge sul caporalato è complice

di Daniele Unfer

Ci si indigna. Poi tutto torna come prima. Una scena già vista e che si ripete con triste puntualità ogni qualvolta una delle tante tragedie squarcia il velo di ipocrisia che avvolge il mondo del lavoro. Lavoro spesso sommerso. Ci si sorprende in queste occasioni che ci sia il caporalato, che ci siano i morti sul lavoro. Un raggio di luce illumina temporaneamente una parte di mondo fuori dalle regole. Accade nell’edilizia, accade in agricoltura, accade in tanti settori ove lo sfruttamento dell’uomo su altri uomini raggiunge livelli insopportabili. Ma accade anche che sulla ditta in cui è successa la tragedia si indagasse da tempo e a passo di lumaca. Accade pure che i numeri dell’agricoltura sono noti. Si sa quanto si produce in Italia. Quanti ortaggi, quanta frutta, quanti “prodotti di eccellenza” arrivano sulle nostre tavole. Della nostra qualità ne facciamo vanto. Siamo ai primi posti nel mondo, così ci diciamo tra noi. Ma a che prezzo? Si sa quante persone sono necessarie per seminare, produrre, raccogliere e trasportare un certo numero di tonnellate di prodotti che arrivano sui banchi dei supermercati di tutta Italia. Si sa quante se ne consumano. I numeri ci sono per fare una statistica di quale esercito di lavoratori serve per far funzionare la macchina. E pure su dove e quali siano le zone di produzione. Quello che manca sono i controlli. Il dramma del caporalato non è un problema di oggi e non è un problema di leggi: le leggi ci sono, ma vanno applicate. E anche la terribile vicenda di Singh forse poteva essere evitata se un procedimento per caporalato contro la stessa azienda non si fosse arenato da anni nelle lungaggini delle aule di tribunale. Invece la prima risposta, quando succedono tragedie del genere, è quella di varare nuove e più severe norme. Resta la sindrome dei rave party. L’idea che varare pene più dure sia la panacea per risolvere ogni problema. Iniziamo invece ad applicare quelle che ci sono. La politica deve fare la sua parte. Tutti conoscono le condizioni di questi lavoratori, in stato di semi schiavitù pagati cinque euro al giorno. Persone che arrivano chissà da dove. Fantasmi senza diritti, ma con il dovere di lavorare senza farsi vedere per portare “l’eccellenza italiana” sulle nostre tavole. C’è tanta ipocrisia. Troppa per essere un Paese che si vanta di far parte del G7 ma che sopporta condizioni lavorative da terzo mondo. Sono duecentomila i nuovi schiavi. Forse di più. Un esercito di fantasmi. Pochi giorni fa la manifestazione a Latina, con i sindacati in piazza per dire no al caporalato, tre giorni dopo la tragica morte di Satnam Singh, il bracciante indiano vittima di un incidente sul lavoro e abbandonato senza alcun soccorso. A Piazza della Libertà sono intervenuti esponenti sindacali, politici locali e nazionali e numerosi lavoratori e braccianti indiani. Sotto accusa il sistema delle ispezioni e gli assurdi meccanismi della legge Bossi- Fini che è ancora quella che regola il sistema dell’immigrazione in Italia. Il caporalato resta una piaga inaccettabile per il nostro sistema produttivo. Non nasce di certo oggi. Nella scorsa legislatura, ministro della Giustizia Andrea Orlando, era stata approvata una legge che persegue per la prima volta in modo organico questa tipologia di reato, applicato non solo in agricoltura  ma anche ad altri settori. Quindi oggi gli strumenti a disposizione ci sono. E anche le risorse ci sarebbero. Si è invece preferito dilazionare o ritardare gli impegni assunti dal precedente governo. Per esempio tra i punti qualificanti del Pnrr vi erano duecento milioni di euro a disposizione dei comuni per alloggi dignitosi per questi lavoratori. Si era arrivati alla mappatura, effettuata dall’Anci, degli insediamenti abusivi per consentire poi l’attuazione dei progetti. Dopo l’insediamento del governo Meloni, tutto si è fermato. Il Piano nazionale per il contrasto al lavoro sommerso, parte integrante del Pnrr, è stato rivisto con fette di finanziamenti dirottati altrove. Lo stesso vale per i controlli con il ritardo dell’immissione in ruolo di nuovi ispettori già assunti grazie al piano dello scorso governo. Insomma, che non si riparta con l’insopportabile litania della necessità di inasprire le pene rispolverando la solita e stantia filosofia che avvolge questo governo. Al ministro Lollobrigida, al ministro del Lavoro e al ministro della Giustizia va detto che le leggi sul caporalato ci sono, vanno applicate e fatte funzionare. I duecento milioni messi a disposizione dall’Europa per superare i ghetti e accogliere queste persone di cui l’Italia ha bisogno, vengano spesi per il rispetto dei diritti e della dignità. Se non lo si fa, si favorisce un modello di impresa basato sulla schiavitù.

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