Il collasso del servizio sanitario e la fine di un diritto universale

di Francesca Sabatini

Il Sistema Sanitario Nazionale non è più. Il punto fermo alla fine di questa frase apparentemente inconclusa non è una svista, è solo espressione laconica della fine inequivocabile di un’epoca in cui il servizio sanitario era un servizio pubblico e universalmente accessibile – e che pure ha a lungo rappresentato un’eccellenza del welfare italiano. L’epitaffio sulla sua pietra tombale è, senza dubbio, l’autonomia differenziata recentemente approvata, che non solo negherà a moltissime persone il diritto alle cure ma si dimostrerà, infine, il più sontuoso e roboante suicidio economico anche per l’efficiente settentrione, le cui strutture ospedaliere collasseranno sotto il peso del turismo sanitario. Ma il problema non è solo (né principalmente) l’autonomia differenziata. Cominciamo dai tagli alla sanità nella legge di bilancio: nel 2024 prevede una spesa per la sanità pari al 6,2% del Pil, che scenderà al 6,2% nel 2025 e poi al 6,1% nel 2026 (non bisogna mai farsi illudere dalle cifre in crescita dichiarate nella Nadef. È la cifra relativa, la percentuale a fronte di tutto il resto, che mostra la progressiva erosione della spesa pubblica per la sanità). Un dato che ha molte implicazioni sul funzionamento del sistema sanitario e sul peso sociale ed economico che questo ha sulla spesa degli italiani. Per quel che riguarda il sistema sanitario come infrastruttura territoriale, almeno nella retorica che intride il Pnrr, doveva garantire dei presidi di prossimità diffusa e configurarsi come sempre più capillare attraverso Case e Ospedali di Comunità. Una promessa disattesa, quella della prossimità: rispetto alle previsioni iniziali del Pnrr, saranno 414 in meno le case di Comunità, mentre gli Ospedali di Comunità conteranno 96 unità in meno. Per quel che riguarda la spesa privata, uno studio recente ha mostrato come in Italia ormai i cittadini paghino un quarto della spesa sanitaria nazionale. Se nel 2016 la spesa non rimborsata dal Ssn (“out of pocket”) era di 28 miliardi, è arrivata a 40,26 miliardi nel 2022: un aumento del 43%. Sempre nel 2022, per questa ragione, quattro milioni di persone hanno rinunciato a curarsi. Ad aumentare (anche rispetto al 2021) sono state soprattutto le spese per le cure psicologiche e l’acquisto di farmaci, ma naturalmente fra le cure più onerose per le famiglie si trovano quelle odontoiatriche, per le quali gli italiani hanno speso otto miliardi nel 2022. La lista potrebbe continuare all’infinito. Non solo il definanziamento dei consultori, ma i fondi Pnrr deliberatamente stanziati a favore delle associazioni pro-vita all’interno di questi ultimi rappresentano il punto moralmente più basso di uno Stato che non è in grado di garantire un aborto sicuro alle proprie cittadine, figurarsi di supportare la salute sessuale e riproduttiva di tutti gli altri. Non solo aumentano vertiginosamente i numeri delle persone che soffrono di un Disturbo del Comportamento Alimentare (siamo passati da 680.569 nel 2019 a 1.500.000 nel 2022, ci dice Il Sole 24 Ore): sparisce dalla legge di bilancio il Fondo per il contrasto dei disturbi dell’alimentazione creato nel 2021. La lista, dicevamo, potrebbe continuare all’infinito, e toccare le convenzioni col privato, i tagli al bonus psicologo, la chiusura dei pronto soccorso. Anziché continuare con gli elenchi, però, abbiamo un’idea migliore: agitiamoci. C’è un passaggio di “Questa strana e incontenibile stagione”, il piccolo saggio che Zadie Smith dedica al periodo pandemico, che ci rappresenta oggi – e che dice “Che sognatori modesti siamo diventati”. Usciamo da questo stato di modesto torpore, e usiamo la crisi per ripensare al modello di cura che vorremmo vedere nei nostri territori. Scendiamo in piazza. Parliamone fra noi. Agitiamoci negli ospedali. Convergiamo insieme alle realtà che stanno denunciando la fine della sanità pubblica. Ne va del nostro diritto alla salute.

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