Carceri, la dignità si ferma fuori dalle sbarre

di Lorenzo Cinquepalmi

Il bollettino di guerra dei morti di carcere ha aggiunto altri due nomi al suo atroce elenco che, dall’inizio dell’anno, conta un numero di decessi pari a quasi un quarto di quelli di tutto il 2023: in un mese hanno lasciato la vita in carcere 36 persone, quando l’anno scorso a morire in cella erano stati 157. Di quei 36, a uccidersi sono stati 16; lo scorso anno erano stati 69. Anche i suicidi sono stati, in un solo mese, poco meno che un quarto del totale dell’anno passato: uno ogni due giorni. Proiettare queste cifre sull’intero anno 2024 soffoca d’angoscia. Cosa sta succedendo? Succede che con 51.000 posti disponibili teorici, ma reali sono 48.000, le carceri italiane tengono in gabbia, oggi, più di 61.000 detenuti, con un sovraffollamento medio del 127%, ma con picchi fino al 200%. Se si pensa che quei 48.000 posti sono in gran parte costituiti da brande sudice in celle fatiscenti; che ogni quattro persone, costrette in un ambiente degradato, esasperato alla privazione, di per sé avvilente, della libertà, se ne aggiunge una quinta infilata in ambienti dove, in un paese civile, non potrebbero stare in due; se, infine, ci si rende conto che i servizi previsti per realizzare il principio di reinserimento sociale dettato dall’art. 27 della Costituzione, già insufficienti nelle loro previsioni teoriche, nelle loro piante organiche, sono drammaticamente sotto organico; allora si capisce che il pianeta carcere, oltre a rappresentare una vergogna per ciascuno di noi, è una bomba sul punto di esplodere, come dovrebbe far capire anche il numero di suicidi tra gli appartenenti alla Polizia Penitenziaria. Il segretario della UIL Polizia Penitenziaria, uno dei sindacati degli agenti che operano nelle carceri, Gennarino De Fazio, interpellato dall’Avanti!, ha detto che “il numero dei detenuti è ormai così alto, gli spazi così ridotti e la polizia penitenziaria così sotto organico, da trasformare la quasi totalità degli istituti italiani in un inferno, aggravato dalla cronica mancanza di assistenti sociali, educatori, magistrati di sorveglianza, cioè coloro da cui dipende la speranza dei detenuti di lasciare quell’inferno”.
Una speranza senza la quale la popolazione carceraria si trasforma in un branco di disperati senza niente da perdere e pronti a tutto. Circa un quarto dei 61.000 detenuti sono in attesa di giudizio; quindi, sempre per la nostra Costituzione, sono innocenti. Circa un sesto deve scontare una condanna che la legge prevede possa essere sostituita con una pena alternativa. Un uso disinvolto e feroce della carcerazione preventiva e la disapplicazione delle leggi sulle pene alternative tiene in carcere più di un terzo dell’attuale popolazione carceraria. A fronte di questi dati, la risposta del Governo, della Presidente Meloni e del Ministro desaparecido Nordio, non è quella di applicare la legge per diminuire il numero dei carcerati, ma è quella di costruire nuove carceri e di rinchiudere i detenuti nelle caserme. Quanto manca ai campi con le baracche e il filo spinato? In fondo nulla: per rendersene conto basta visitare i Centri in cui vengono rinchiusi e privati della libertà gli immigrati clandestini, in condizioni da lager. Mentre la macchina della giustizia macina allegramente e incoscientemente le vite delle persone, ci sono magistrati, talora malvisti, che liberano dopo vent’anni un condannato all’ergastolo; chiedono la riapertura di processi inquinati dalla spinta mediatica; cercano di essere giusti. Giusti, e non solo graditi. Di fare giustizia e non di soddisfare aspettative. Sarebbe davvero bello se il condivisibile moto di indignazione suscitato dall’immagine di Ilaria Salis, un’italiana in catene in un Paese straniero, costituisse il punto di avvio della presa di coscienza collettiva sulla condizione di chi è privato della libertà in Italia. Perché i detenuti vengono portati in aula con manette e guinzaglio anche in Italia, non solo in Ungheria; perché la condizione delle celle in cui vengono stipati è oscena anche in Italia, non solo in Ungheria. Perché i detenuti sono esseri umani in ogni luogo del mondo, e con umanità devono essere trattati: una società disumana con i suoi prigionieri è, in un modo o nell’altro, disumana con tutti.

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