Un nuovo “internazionalismo liberale” contro la grancassa della guerra di civiltà


di Luca Cefisi

Ci voleva un socialista (e buon cattolico) come Antonio Guterres per difendere i buoni vecchi valori del cosiddetto “internazionalismo liberale”, cioè di un sistema basato sul diritto, la pace, l’autodeterminazione dei popoli e il mutuo riconoscimento di diritti e doveri delle nazioni, concepito da Kant, ereditato da Wilson e Roosevelt, e di cui le Nazioni Unite sono il frutto più importante. In questi anni, la guerra è tornata ad essere possibile, la “guerra mondiale a pezzi” segnalata da Papa Francesco. C’è un grande, inquietante cambiamento, che va individuato con precisione, rispetto agli anni Novanta e Duemila, quando i conflitti ancora in corso erano sembrati le ultime ripercussioni del vecchio ordine. La crisi jugoslava, in fondo, apparve un malaugurato residuo del comunismo; l’Iraq di Saddam Hussein, giusto una testarda dittatura araba, che non si voleva adeguare ai tempi nuovi. Anche Al Qaeda si è potuta considerare una scheggia impazzita, Bin Laden una sorta di colonnello Kurtz, alto e barbuto, perso nel suo cuore di tenebra, che la tecnica e la globalizzazione avevano in modo imprevisto portato dai monti afgani alle Twin Towers. In senso contrario, sin dal primo incontro tra Reagan e Gorbaciov nel 1985, le grandi potenze avevano firmato il trattato INF (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty) sulle armi nucleari di raggio intermedio; Mosca smobilitò il Patto di Varsavia, e al tempo stesso gli Usa fecero cadere il regime sudafricano e la dittatura cilena. Si realizzarono anche gli accordi di Oslo, una soluzione tra le due ragioni di Israele e Palestina, che proprio la logica di schieramento nella guerra fredda pareva aver fossilizzato. Torniamo all’oggi, e notiamo il drastico cambiamento: non è un periferico “Stato canaglia”, ma la Russia, nazione storicamente cruciale negli equilibri mondiali e membro del Consiglio di Sicurezza, a decidere per una guerra d’invasione insensata, sostenuta da pretesti ideologici che risalgono all’antico imperialismo “granderusso” e al peggior nazionalismo del Novecento europeo. Al tempo stesso, tra Usa e Cina vengono meno decenni di proficuo dialogo, e si apre un contenzioso che sembra riportarci a una nuova guerra tra superpotenze per ragioni di egemonia. Nel frattempo, ci siamo accorti con sconcerto che quel trattato sulle armi nucleari è decaduto nel 2018. Stiamo assistendo al ritorno prepotente dei nazionalismi ideologici, ed al risorgere del parente più stretto dei sovranismi, cioè il fascismo, in forme inedite ma con radici antiche, di cui sono espressione partiti come la Lega di Salvini. È il caso di notare che Putin, e Orbàn, esibiscono un apparato ideologico in continuità con quel passato. En passant, l’ideologia del Likud, il partito di Netanyahu, risale a quel cosiddetto “sionismo revisionista”, antisocialista e nazionalista, minoritario nella fondazione di Israele, che risale anch’esso al brodo di coltura dei nazionalismi europei: tutto si tiene. Nel campo progressista, appare urgente evitare un equivoco: quello di applicare ai tempi nuovi la retorica della vecchia guerra fredda, insomma leggere Putin come il ritorno del comunismo non convince per niente (lo stesso Putin ha tenuto a scagliarsi contro Lenin, indicando quale sia il retaggio che l’ex agente del Kgb, essendo l’erede di Eltsin e il garante del capitalismo di rapina degli oligarchi sorto dallo smantellamento dell’economia di Stato). La guerra in Ucraina è il ritorno dell’imperialismo delle nazioni-tribù europee, che grazie alla nostra Unione Europea abbiamo contenuto e civilizzato: l’Ucraina va difesa e sostenuta, ovviamente, ma la prospettiva non è un più o meno improbabile trionfo sul Don, ma il ritorno alle regole, alla ragionevolezza, al diritto, fermando questo folle ritorno al passato. Né è possibile rappresentare seriamente il conflitto in corso a Gaza come un conflitto tra Occidente ed Islam: si tratta di un conflitto per la terra, pluridecennale, oggi incarnato da entrambe le parti dai peggiori estremismi nazionali e religiosi, e che hanno sequestrato le giuste cause dell’autodeterminazione palestinese e dell’Israele democratica che negli anni ‘90 avevamo sostenuto, da italiani, con oculata “equivicinanza”. E poiché abbiamo citato Andreotti, possiamo citare anche Nenni, che dalla Farnesina volle la Cina nell’ONU: ricordando che scopo dell’ONU non è quello di blindare un presunto schieramento delle democrazie, ma di garantire una sede di dialogo tra regimi diversi, nella fiducia che l’evoluzione pacifica, e non l’esasperazione del conflitto, porti anche all’avanzata delle libertà. Si diceva di Antonio Guterres: anche grazie al suo lavoro, talvolta disprezzato, abbiamo avuto negli scorsi giorni una risoluzione del Consiglio di Sicurezza sulla crisi di Gaza. Vanno difesi i valori di quell’ordine “liberale” che certi populisti neoliberali, anche dagli editoriali di grandi giornali nazionali, sembrano oggi disprezzare, battendo la grancassa della guerra di civiltà.

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