di Giada Fazzalari
“Io mi sento figlio di una storia”, disse Bettino Craxi ad Hammamet, poche settimane prima di morire, ad uno dei giornalisti che erano lì per intervistarlo. È tutto in quelle parole il senso stesso di come Craxi, oggi, andrebbe “letto”. E cioè come uno dei principali leader della sinistra italiana ed europea e l’ultimo vero leader della Prima Repubblica. L’unico ambito possibile, quello nel quale si collocò lui stesso: “Io sono uno degli uomini più di sinistra che l’Italia abbia avuto degli ultimi venti-trenta anni”, ebbe a ribadire senza esitazione. Contestare il tentativo della destra, quanto mai fantasioso, di “appropriarsi” di Craxi, è naturale per chi, come noi, è figlio naturale di quella storia. Ma attenzione: in politica gli spazi si occupano e la destra occupa uno spazio che la sinistra “progressista” si ostina a voler lasciare colpevolmente vuoto. Un paradosso bello e buono, un tentativo antistorico. Se ci fossero una rivendicazione chiara, un pantheon chiaro, un riconoscimento chiaro, questo tentativo sarebbe risultato vano. Una storia che, ancora oggi, restituisce un giudizio non ancora definitivo. Eppure, nonostante appropriazioni indebite e omissioni, sembriamo essere a un passo dal vedere avverata una profezia, quella che Bettino Craxi stesso, crepuscolare e malinconico, nel parlare del suo Paese e di quello che l’aveva ospitato nel lungo esilio, aveva pronunciato: “La storia di questi anni sarà riscritta bene. In tutti i suoi aspetti, in tutti i suoi capitoli, in tutti i suoi personaggi, in tutti i suoi falsi eroi. E si farà l’operazione verità. La battaglia della storia non gliela faccio vincere”. Si riferiva alla speranza di una futura ritrovata coscienza collettiva su cosa fu davvero, per l’Italia, la storia socialista a guida Craxi: incubatrice di modernizzazione, di novità, cambiamento e originalità, che operò una vera e propria rivoluzione culturale della vita politica italiana. E che però ebbe un epilogo tragico, a tratti feroce. È un fatto che venticinque anni dopo la scomparsa di Craxi, si siano moltiplicati i riconoscimenti, che sia maturata una lettura più onesta del politico e che le iniziative editoriali abbiano aiutato a ripristinare una immagine più reale, meno dolorosa e meno ingiusta del leader socialista. Persino da parte di nemici nei quali si erano annidate le invettive più violente. Certo, la distanza dagli eventi aiuta a comprenderli meglio, o come dice Fabio Martini nell’intervista che trovate in queste pagine, “la distanza spegne le passioni e c’è la realtà di una seconda Repubblica insoddisfacente che ha esaltato la nostalgia”. Non c’è dubbio che il caso Craxi, che negli anni si è preferito liquidare velocemente con giudizi poco lucidi, pesi sulla coscienza collettiva del Paese. Per rimettersi sulla strada interrotta di Craxi, l’omaggio al leader, oggi, è quanto mai più doveroso perché si è fatto più consapevole. Non per noi socialisti, ma per il Paese. Per raddrizzare il torto, per consegnargli il posto che gli spetta nella storia, per riconoscere che fu protagonista di una stagione nella quale fu operata una vera e propria rivoluzione culturale, per la poderosa portata dei cambiamenti che produsse. Il cammino è forse ancora lungo e tortuoso. Ma la strada è già intrapresa.