Perchè l’autonomia differenziata fa male anche al Nord

di Andrea Follini

Articolo 5 della Costituzione della Repubblica italiana: “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”. Una e indivisibile….promuove le autonomie locali. Serve altro per comprendere quanto l’autonomia sia già parte integrante del nostro dna costituzionale? Evidentemente si, se il Parlamento, su spinta del Governo, ha sentito la necessità di legiferare in materia. Ma cerchiamo di fare un’analisi puntuale. Tutto nasce negli anni 2000, quando nei territori del Nord del Paese spira un forte vento secessionista, aizzato dalla Lega (allora –Nord). Il governo di centro sinistra, prima di chiudere la legislatura, forse spaventato delle ripercussioni sul consenso, vara una modifica del Titolo V della Carta, introducendo la possibilità per le Regioni di richiedere “..forme e condizioni particolari di autonomia…”. Nasce l’Autonomia differenziata. Il centro sinistra si proclama vincitore: è riuscito dove in anni di governo della destra, la Lega Nord non era riuscita. Analisi delle possibili conseguenze: zero. Tutto tace per una ventina d’anni, con il Paese immerso in ben altri problemi. La questione torna a galla ancora una volta con un governo di centro sinistra. Due regioni (Lombardia e Veneto) propongono una sorta di referendum tra la popolazione (spendendo una valanga di denari) per farsi dire dal popolo se sono favorevoli o meno all’autonomia; una terza Regione, l’Emilia-Romagna, salta la fase “referendaria” e richiede direttamente il trasferimento delle materie e delle competenze. Solo in Veneto la consultazione è una sorta di plebiscito: viva l’Autonomia! Ma se si chiedeva a chiunque, al mercato, al bar o al panificio, di cosa si stesse discutendo, la risposta sarebbe stata sempre la medesima: “sono favorevole perché finalmente i nostri soldi resteranno in Veneto e li useremo per noi con la bravura che ci contraddistingue. Basta sprechi, basta assistenza…e basta Roma!” Tutto chiaro, quindi (sigh!). Dopo anni da quei referendum (ottobre 2017), adesso l’Autonomia differenziata è legge. Le Regioni possono chiedere il trasferimento delle materie previste dalla Costituzione, e delle relative competenze. A patto che vengano rispettati i livelli essenziali di prestazione (previsti non per tutte le materie). Cioè, che non vi sia disparità nei servizi che i cittadini italiani ricevono, indipendentemente che siano veneti o campani, calabresi o toscani. Una telenovela comica. Ma il Nord che richiamava a gran voce l’autonomia, è ancora lo stesso? È quella della riforma Calderoli l’autonomia che aveva in mente il cittadino padano che si era tanto speso per partecipare a quell’inutile referendum, pensando in quel momento di scrivere la storia? Forse per la signora Maria, che nel 2017 auspicava che “i schei” delle tasse restassero tutti in Regione, anche si. Ma questa riforma non la vuole più nessuno: non la vuole Confindustria, preoccupata di una regionalizzazione delle leve della politica industriale, creando un’Italia a venti velocità in un mondo che invece tende ad aggregare, al grido di “grande è bello”; nel panorama dell’economia e della finanza mondiali, un discorso è agire come Stato, altro come Regione. Questa riforma non la vogliono i sindacati, preoccupati di mettere a rischio i contratti collettivi nazionali di lavoro. Non la vuole la sinistra, preoccupata di una spaccatura del Paese. Non la vuole nemmeno la Chiesa, perché rischia di minare il principio di solidarietà tra gli italiani. Ma farebbero davvero bene a non volerla nemmeno i cittadini del Nord. Troppo spesso abbiamo ascoltato lamenti su quanto il Sud verrebbe penalizzato da questa norma, quali sarebbero le conseguenze per le Regioni meridionali ed i loro cittadini in termini di servizi, capacità di resistere ad un “settentrione pigliatutto”, pronto a depauperare il Meridione da ogni risorsa. Vederla solo da Napoli questa (e non altre) autonomia differenziata, non giova. Siamo certi che il nord Italia ne uscirebbe arricchito? Forse si farebbe bene a riflettere su quanto questo “spacchettamento” ridurrebbe al capacità contrattuale di singole regioni del Nord nei confronti di interlocutori nazionali altri, sia nel conteso dell’Unione europea che all’esterno di essa, anche perché siamo privi di un organismo istituzionale che raccolga in un unicum le rappresentanze delle varie realtà regionali. Quale diventerebbe poi la competitività delle aziende del nord in un contesto di deregolazione regionale; con quali ricadute anche sui lavoratori, sulla loro sicurezza? Si farebbe meglio quindi a riflettere su quanto questo provvedimento non produca tanto una differenziazione del benessere tra parti diverse del nostro Paese, bensì una maggiore difficoltà generale per tutti. Che non ci pare fosse l’obiettivo nemmeno dei leghisti della prima ora.

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