di Andrea Follini
Siamo alla terza settimana di guerra aperta tra Israele ed i terroristi di Hamas. 222 gli ostaggi israeliani portati a Gaza. Il numero di attacchi con razzi dai territori della striscia verso Israele e le incursioni dell’aviazione israeliana di risposta non si contano più. Così come i morti, in questa terribile carneficina che dal 7 ottobre scorso ha scosso tutto il Medio Oriente. A nulla valgono le parole di Papa Francesco che ha richiamato tutti a far cessare le armi e a riprendere il dialogo per la ricerca della pace. Ma la situazione è particolarmente incerta, ed una soluzione non solo non è alle porte, ma pare nemmeno venga cercata con insistenza. Il colpo per Israele è stato molto forte; il Paese impreparato ad una debacle così tragica, mentre piange i civili ed i militari morti, mentre resta attonito di fronte alla violenza ed alla barbarie dei terroristi di Hamas, cerca nel contempo al suo interno le responsabilità e lo fa puntando il dito contro il governo di Netanyahu. Governo che, su spinta degli alleati occidentali, primi tra tutti gli americani, smorza il desiderio di vendetta del suo popolo, scegliendo la via della prudenza. Si susseguono quindi i rinvii per la più volte annunciata invasione di Gaza, alla ricerca degli ostaggi e dei capi di Hamas; la richiesta di muoversi con attenzione in questo quadrante geopolitico così delicato, così sensibile ad ogni più lieve mutamento, è una condizione obbligata per non far esplodere una escalation che difficilmente si sarebbe in grado di gestire. Il fatto che il mondo arabo sia già pronto alla mobilitazione, con in testa l’Iran, antico nemico di Israele, rende necessaria una riflessione fredda. È ciò che hanno chiesto tutti i leader occidentali che nei giorni scorsi, con la loro presenza, hanno mostrato la propria vicinanza al popolo israeliano visitando il governo di unità nazionale nato dopo le stragi dei kibbutz e del rave nel deserto. In parallelo, l’apertura, sebbene a singhiozzo, del valico di Rafah, nel sud della striscia, al confine con l’Egitto, per consentire il transito degli aiuti umanitari indispensabili per i palestinesi, fa comprendete come sia interesse di tutti distinguere in modo chiaro la differenza tra il terrorismo della frangia di Hamas dalla popolazione palestinese, inerme e schiacciata dentro un territorio privo di tutto, e anche sotto le bombe israeliane, che vive da anni in una condizione di totale e inconcepibile asservimento. Un popolo, quello palestinese, da troppi anni centro di una guerra territoriale e religiosa che più volte la politica internazionale ha tentato di sedare, salvo ritrovarsi sempre al punto di partenza. Quest’ultima triste vicenda non è da meno. E si che non si era distanti da un accordo, grazie anche alla mediazione saudita, interessata a stemperare le tensioni tra i contendenti così come nel tenere a distanza un Iran sciita dal resto delle monarchie sunnite presenti nel quadrante. Ora tutto è rimesso in discussione, dal sostegno aperto di Teheran ad Hamas e dall’ira israeliana per quanto successo. Tutti sembrano attendere una prima mossa, che per fortuna tarda ad arrivare, proprio perché le conseguenze non sarebbero perfettamente prevedibili, tranne che nella consapevolezza di accendere una miccia di breve lunghezza, dalla quale attendersi una fragorosa detonazione in tutta l’area. Ma anche se in qualche modo si riuscisse a limitarsi all’annientamento di Hamas, cosa succederebbe poi? Ridarebbe questo speranza a chi si aggrappa al sogno, quasi utopico ma necessario, dei due Stati indipendenti? Se lo chiedono in molti oggi, dentro e fuori Israele, quando si pensa alla destituzione di un potere autoritario e terrorista o, più propriamente, nel caso, alla fine di un conflitto. Un dilemma che non sembra oggi ancora trovare soluzione. Senza dimenticare che nulla dovrebbe passare sopra la convinzione democratica di un popolo, quello palestinese, che in queste ore sta pagando questa guerra con la vita di centinaia di civili. Un popolo che non può essere abbandonato, per evitare che quel territorio si trasformi in una ulteriore fucina di odio e terrore. All’Occidente, cui la stabilità del Medio Oriente è quanto mai essenziale, spetta il mettere in campo una capacità di mediazione che allenti la spirale di terrore e morte, ed il saper proporre una speranza. Non ci sta riuscendo, nonostante non siano mancati gli sforzi in tal senso, neanche in quella che fino a qualche settimana fa consideravamo il baricentro dell’emergenza politico-militare: la guerra conseguente all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. C’è chi ha tentato di leggere un parallelismo tra i due conflitti, considerando unicamente l’azione di uno Stato invasore verso l’invaso; ma sbaglia chi paragona la Russia ad Israele, perché ben diverse sono sia le vicende storiche che le modalità del conflitto stesso. Ciò che invece unisce le due vicende è la volontà che esse diventino elementi destabilizzanti per l’ordine mondiale, data la ricaduta planetaria degli eventi e gli attori, non solo quelli diretti ma ben più quelli indiretti, in campo. Esiste, infatti, un asse anti occidentale formato da Russia, Cina, Iran e Corea del Nord che si rinsalda con l’obiettivo di dare vita a una destabilizzazione dell’Occidente. Ecco perché si rende necessario non considerare il riacuito conflitto israelo-palestinese dimenticando l’ormai quasi biennale conflitto ucraino; lo sforzo per riportare la pace in entrambi i territori dovrà essere davvero eccezionale, una sorta di globalizzazione della pace, rendendo a tutti i popoli coinvolti una vera giustizia, che sappia far gustare loro la fragranza della libertà e della democrazia, rendendo il nostro ed il loro futuro più sicuri.