di Andrea Follini
È un susseguirsi di mosse e contromosse che nelle ultime ore ha avuto un’accelerazione importante. Il conflitto israelo-palestinese mostra in questi giorni continui colpi di scena. L’accettazione da parte di Hamas degli accordi per un cessate il fuoco che consentisse, in tre fasi successive, di arrivare alla definitiva fine delle ostilità, ha letteralmente spiazzato il governo di Benjamin Netanyahu. Dell’accordo, la prima fase consentirebbe ai palestinesi di rientrare nel nord di Gaza, con il contestuale rilascio di centinaia di prigionieri palestinesi dalle carceri di Tel Aviv; questo in cambio di un primo contingente di ostaggi da liberare; inoltre vi sarebbe il ritiro dell’esercito israeliano Idf da alcune parti della Striscia. La potenziale seconda fase, con sei settimane di tregua, vedrebbe il rilascio di tutti gli altri ostaggi viventi e il completamento degli accordi per un cessate il fuoco duraturo. La terza ed ultima fase, della durata di altre sei settimane, sancirebbe lo stop definitivo alla guerra e vedrebbe lo scambio delle salme. Il cerino è stato posto nelle mani del governo israeliano, che tutto avrebbe voluto, tranne che una rapida definizione del conflitto, invischiato com’è in questioni interne che, una volta terminata la guerra ai terroristi di Hamas, porterebbero più di qualche ministro, oltre al premier, davanti al giudice con accuse di corruzione. Ecco perché Netanyahu ha preso tempo, dichiarando inizialmente “non conformi a quanto stabilito” gli accordi accettati da Hamas. Ma quell’accettazione ha di fatto messo il governo in un angolo. Rapido l’invito rivolto degli Stati Uniti ad Israele ad accettare e, per rafforzare la spinta, Washington ha sospeso l’invio di un pacchetto di aiuti in armamenti diretto a Tel Aviv. Si è fatto sentire senza ritardo anche il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, chiedendo ad Israele ed Hamas di “fare il possibile” per concludere l’accordo. Guterres ha inoltre esortato Israele e Hamas “a fare il possibile per porre fine alle sofferenze attuali della popolazione civile”. In questo quadro il tentativo di Tel Aviv di assestare gli ultimi colpi ad Hamas prima di cedere alle sollecitazioni, spiega gli attacchi aerei dei giorni scorsi verso la zona est di Rafah con alcuni spari di artiglieria nel medesimo quadrante, unito alla conquista da parte dei militari dell’Idf del valico a sud di Rafah, a circa due chilometri dall’Egitto, un punto strategico soprattutto perché è da quel valico che è destinata a passare la maggior parte degli aiuti che provengono dall’estero, diretti nella Striscia. Se questi saranno gli ultimi scampoli di un conflitto ripreso lo scorso 7 ottobre con una spietata azione terroristica senza precedenti mossa da Hamas in territorio israeliano, rapendo più di duecento persone ed uccidendone più di mille, non è ancora dato sapere. La situazione però, con il passare delle ore, sembra definire i contorni di una guerra che sta durando da più di sei mesi, che ha portato l’interno popolo palestinese in una condizione indescrivibile ed inumana, immersa com’è in una carestia senza precedenti, con epidemie dilaganti e città di fatto rase al suolo. Con più di trentaquattromila morti tra i civili. Una guerra che ha visto anche più di seicento vittime tra i militari israeliani. Sul fronte interno israeliano, continuano le manifestazioni di protesta contro il governo, scoppiate in tutto il Paese, per la liberazione degli ostaggi, per le dimissioni dell’esecutivo e per l’indizione di nuove elezioni. Da non dimenticare che, sul capo di questo governo e del Primo ministro in particolare, pende la decisione di spiccare un mandato d’arresto internazionale per crimini di guerra da parte della Corte Penale Internazionale, circostanza questa che sembra aver sortito l’effetto di ammorbidire le posizioni più intransigenti nei partiti di destra. E non cessano nemmeno le proteste degli universitari pro-Gaza, diventate una vera e propria spina nel fianco sia degli atenei che dei governi dei Paesi nei quali la protesta studentesca ha acceso le piazze. Proteste in Europa, in Australia ma soprattutto negli Stati Uniti, dove si sono trasformate in occupazione delle università ed in vere e proprie battaglie con la polizia, tanto che si sono registrati diversi arresti di manifestanti, e anche di qualche professore. Si chiede ovunque la stessa cosa: che gli atenei interrompano le collaborazioni in essere con aziende e con altri atenei israeliani come spinta ad un cessate il fuoco umanitario definitivo. Non si è di fronte quindi, come erroneamente si vuol far passare, ad un rigurgito di antisemitismo bensì ad un tentativo di fermare la mano militare del governo Netanyahu. Con gli occhi del mondo puntati contro, senza più l’alibi di un accordo impossibile, raggiunta militarmente anche Rafah, ultimo baluardo di un territorio totalmente devastato, ora a Netanyahu non resta che fare i conti con se stesso e con la sua coscienza.