Libertà di stampa: la montagna ha partorito il bavaglino

di Alessandro Silvestri

Ci voleva un transfuga del centro destra approdato dopo una carriera parlamentare di lungo corso ad Azione, per tirare fuori dal cilindro un emendamento tanto divisivo come quello presentato in aula della Camera il 19 dicembre scorso, subito ribattezzo “legge bavaglio” per via di quella clausola vincolante sul divieto di pubblicazione (integrale o per estratto) delle ordinanze di custodia cautelare. Una sorta di crociata ipergarantista, con alcuni temi toccati che meritavano tuttavia, per la verità, una soluzione parlamentare da alcuni decenni. Ma che, nelle modalità di blitz con cui l’emendamento è stato inserito nel testo approvato, era evidente che scatenasse le reazione di vasti settori della politica e del mondo dell’informazione, dimostrando ancora una volta quanto l’attuale maggioranza, sui temi scottanti, non abbia (e soprattutto non voglia) aprire un confronto politico e istituzionale ampio e condiviso. Ecco che allora non si meravigliano più di tanto a Palazzo Chigi e in via Arenula, che la FNSI abbia chiesto a Mattarella di non controfirmare la Legge, e se tutta l’opposizione (esclusi i soliti Renzi e Calenda) abbia vivacemente protestato e organizzato, come ha fatto il Pd, il sit-in di protesta davanti i cancelli della RAI il 7 febbraio. Ribadendo coralmente quanto il provvedimento risulti lesivo dell’art. 21 della Costituzione, quello sulla libertà di stampa. Rilievo di sostanza, al quale ci associamo senz’altro, pur ribadendo che un ripensamento dei rapporti tra stampa e magistratura vadano rimodellati per garantire da un lato i diritti sacrosanti dell’informazione, salvaguardando al contempo quelli, non meno stringenti, dell’imputato. Non potendo non ricordare quanto il sistema della gogna mediatica abbia influito politicamente in modo pesante, sulla storia democratica del Paese. Allorquando l’intero sistema dei partiti di governo, fu spazzato via dall’azione concentrica di soggetti all’interno e all’esterno dello Stato. E proprio perché memori di quella stagione, invitiamo le altre opposizioni, dentro e fuori il Parlamento, a considerare che il settore delle tutele individuali, specialmente di chi è chiamato ad incarichi pubblici, non sia meno importante della difesa della libertà di espressione. Non a caso l’istituto della immunità parlamentare fu pensato dai padri costituenti quale difesa di un principio fondamentale, dai riflessi collettivi assai importanti.
Il problema, ancora una volta, come abbiamo visto fin dai primi giorni del Governo Meloni, è rappresentato casomai dalla formidabile ansia da prestazione che investe un po’ tutti i suoi esponenti, mossi all’inizio da una certa anarchia comunicativa, non di rado a sproposito (l’elenco è lungo) fino alla “reductio ad unum” dell’annuncismo divenuto prerogativa della Presidente del Consiglio o al massimo dalla sua cerchia più ristretta. E così di nuovo il Lollobrigida, quasi come fosse un Bandecchi qualsiasi, utilizzando a pretesto i comparti produttivi di pesca e agricoltura, ha tacciato “sinistra e giornalisti di essere cresciuti a champagne e nei salotti e nelle redazioni l’odore del letame non arriva”. Come a dire, siete contro di noi antropologicamente, proprio noi che siamo i veri patrioti e i soli a volere il bene del Paese. Certo, come no. Peccato solo che noi filibustieri di sinistra, abbiamo il fondato sospetto che ai “patrioti” attualmente al comando, del principio universale di una legge freghi il giusto, e che la norma sia stata introdotta in quel modo, per arginare intanto la frana giudiziaria che sta investendo alcuni membri della maggioranza. Una vecchia volpe della politica del ‘900, diceva che “a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si indovina”. Ecco, proprio per sgombrare il campo da qualsiasi retropensiero, avrebbe dovuto un tema così delicato essere sviluppato, dibattuto e vivisezionato, in maniera bipartisan, magari fino allo sfinimento, ma giungendo alla fine ad un provvedimento graniticamente condiviso. E ineccepibile.

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