La casa è un diritto ma rivendicarlo disturba il potere

di Francesca Sabatini

Due questioni si intrecciano negli accadimenti politici su cui si concentra questo articolo: una è la questione abitativa, l’altra è la questione politica relativa alla repressione del dissenso e al controllo sociale. Partiamo dalla questione abitativa. Si tratta di un problema globale, dovuto alla finanziarizzazione del mercato immobiliare ed alle sue conseguenze, sia sull’economia nel suo insieme (è proprio al crollo del mercato finanziario legato alla casa che dobbiamo la crisi del 2008) sia sulle fasce più vulnerabili della popolazione, per le quali la casa (e non solo quella di proprietà) è un bene, paradossalmente, di lusso – al cui costo crescente non ha fatto fronte un aumento contestuale del reddito. La casa, dicevamo, è un problema globale, ma è anche un problema precipuamente italiano: secondo l’ “Affordable Housing Database” dell’OECD, in Italia un terzo della popolazione spende più del 40% del proprio stipendio nella casa. Nelle grandi città dopotutto l’impennata dei prezzi nell’ultimo anno è stata strepitosa: a Milano il costo per l’affitto di un bilocale si aggira intorno ai 1040€ (lo dice Tecnocasa). Ma almeno per “i poveri” ci sono le case popolari, giusto? Eh no, perché le persone in condizioni di povertà assoluta o in grave emergenza abitativa sono sempre di più, e saturano dal basso un settore già fermo da decenni, quello dell’edilizia residenziale pubblica, che in Italia occupa l’1% del PIL (in Francia è 2,9, nel Regno Unito il 5,6). Arrivati a questo punto i dati forniti sono tanti e rischiano di creare confusione. Allora prendiamoci una pausa dall’emergenza abitativa e pensiamo ai manganelli – quelli non vanno per il sottile come le statistiche. Sappiamo che in questo periodo le manganellate della polizia si abbattono indiscriminatamente sulle teste di chi protesta esercitando un diritto costituzionalmente garantito – è successo a Catania, a Pisa e a Firenze. Che i manganelli colpiscano indiscriminatamente non è così vero, però, giacché la settimana scorsa a Roma centinaia di persone si sono esibite nel saluto fascista durante una commemorazione senza che delle forze dell’ordine ci fosse neppure l’ombra. Ma cosa c’entrano i manganelli con la crisi abitativa? Ve lo racconta Bologna. La ragione per cui hanno manifestato le attiviste e gli attivisti questo autunno era, appunto, legata alla questione abitativa a Bologna: affittare un bilocale costa 800 euro, una stanza singola 600. La città è piena di studentati privati di lusso, gli “student hotel”. Per la prima volta da anni, la città studentesca per eccellenza ha visto il proprio numero di studenti decrescere, complice appunto la crisi abitativa. Per far fronte a un disagio abitativo sempre più diffuso, che colpisce gli studenti, i lavoratori precari e una classe media sempre più in affanno, si sono moltiplicate in città le occupazioni di stabili vacanti – di questi ultimi Bologna vanta un numero fin troppo alto (Planimetrie Culturali arriva a identificare più di 750 edifici vuoti, pubblici e privati). In queste occupazioni vivono precari, anziani soli, studenti senza garanzie, famiglie monoreddito e persone senza dimora o sfrattate. Perché mai dare risposte politiche strutturali quando si può scegliere lo sgombero violento? Ecco allora che a Bologna si sono verificati non solo una marea di sfratti ma anche moltissimi sgomberi, cinque solo nell’ultimo semestre. Gli scontri con gli occupanti sono stati violenti, con un dispiego sproporzionato di forze di polizia e un utilizzo scellerato della forza che ha portato a ferite e violenze sui corpi delle attiviste. È più recente, tuttavia, la soluzione inedita (e, se volete, sadicamente ironica) con cui le autorità hanno deciso di boicottare le manifestazioni per il diritto alla casa. A quattro mesi dal presidio contro lo sgombero, sei attivisti si sono visti vittime di un’ordinanza che impone loro il divieto di dimora; una misura medievale, barbaramente repressiva che impedisce loro di tornare a Bologna perché giudicati pericolosi. Sono operatori sociali, volontari e attivisti che ogni giorno erano impegnati nel rendere la città un luogo meno ostile e che sono stati mandati al confino. Per questo, tantissime realtà mercoledì scorso si sono affiancate ai Municipi Sociali sotto alla sede del Comune per manifestare la loro solidarietà. All’oggi, dunque, Bologna è paradigmatica di uno stallo importante, di un paradosso ineffabile, in cui all’assenza di case si risponde sgomberando le case vuote e privando le persone del diritto di risiedere nella propria città, in cui il decisore politico non offre una risposta all’emergenza abitativa, ma non è neppure disposto ad accettare che si reclami il diritto all’abitare.

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