Intervista di Andrea Follini
Le elezioni europee dello scorso giugno hanno ridisegnato il Parlamento di Strasburgo ma confermato quella maggioranza che aveva governato l’Unione negli ultimi cinque anni. La costruzione dell’architettura istituzionale si sta completando, dopo la presidenza della Commissione europea, del Parlamento e delle commissioni parlamentari (con grossi malumori per la destra italiana) si attende ora solo la nomina dei 27 commissari e dei vice presidenti della Commissione guidata da Ursula von der Leyen. Di questa nuova stagione che si sta aprendo per l’UE abbiamo parlato con Pia Locatelli, responsabile esteri del Psi, vice presidente dell’Internazionale socialista, componente della Presidenza del Pse. Con Pia abbiamo anche fatto un’analisi dei nuovi equilibri dopo le elezioni europee dello scorso giugno.
Rispetto al precedente, che Parlamento è uscito dalle urne di giugno? Tutto doveva cambiare, ma tutto sembra averci riportato al punto di partenza.
«Parto dai numeri, perché servono a fare chiarezza. Tutti dicevano che l’Europa si sarebbe spostata a destra. La maggioranza del Parlamento del 2019, che era costituita da popolari, socialisti e verdi, aveva il 59,1%. Con queste elezioni, questa compagine ha visto ridursi il suo consenso complessivamente del 3,75%. Non vedo quindi questo “grande tracollo” che tutti davano per scontato. Sulla motivazione di questo contenimento, io do una mia interpretazione: i cittadini e cittadine europee non hanno di fatto scelto. Siamo come in mezzo al guado; speravamo che il voto avrebbe impresso un segnale più marcato dell’esigenza di una trasformazione delle istituzioni europee, ma così non è stato. Ora diventa, per fortuna, impossibile tornare indietro, ma anche faticoso costruire il futuro».
Per “tornare indietro” intendi l’esperienza della brexit?
«Si; abbiamo visto come il Regno Unito abbia pagato pesantemente la scelta di uscire dall’Ue. Tanto che ci sta ripensando. Ma il resto dei Paesi non fanno fare all’Ue quei passi avanti che sarebbero necessari, e questo è grave. E pensare che l’esito della Conferenza sul futuro dell’Europa, fantastica esperienza di democrazia rappresentativa e partecipata, aveva dato indicazioni precise per la revisione dei trattati, punto fondamentale per il rilancio dell’Ue. A giugno non abbiamo visto nell’espressione di voto, un favore marcato nei confronti delle forze politiche che sono più convinte della necessità di questa evoluzione».
Posizione difficile anche quella della Presidente Meloni
«Ha messo i piedi su due staffe. All’inizio del suo mandato, per accreditarsi agli occhi dell’Europa, ha sposato pienamente la linea Draghi, rispetto all’Ucraina, alla tenuta dei conti, alla visione di un’Ue rigenerata. In più, ci ha messo una relazione, quasi personale oltre che politica, con Ursula von der Leyen. Loro si erano molto intese sul tema delle migrazioni, viaggiando insieme in Sicilia come in Tunisia. Ma cosa ha fatto la Meloni? Dopo essersi accreditata in questo modo, quando è stato il momento della verità, nel Consiglio europeo di fine giugno si è astenuta sull’indicazione della von der Leyen alla presidenza, ed ha votato contro Antonio Costa come Presidente del Consiglio. Ed anche contro la nomina di Kaja Kallas ad Alto Rappresentante per la politica estera e la sicurezza comune, compiendo in questo modo un gesto molto brutto ed isolazionista».
Perchè?
«Perché Meloni, in continuità con Draghi, ha sempre espresso il sostegno totale all’Ucraina; e la Kallas è tra le personalità politiche ed istituzionali europee che più si è spesa per la causa Ucraina. Meloni è stata incapace di superare questa contraddizione; guida l’Italia, storicamente sostenitrice dell’integrazione europea, ma allo stesso tempo continua a fare la leader dei Paesi euroscettici. Meloni non ha scelto, rimanendo ambigua; la cosa più sbagliata che potesse fare. Poi ha fatto un altro errore clamoroso: ha cercato di aggregare attorno a lei le forze di destra. Ma come fai ad avere un rapporto privilegiato con la presidente della Commissione, espressione di una certa maggioranza, e nello stesso momento fare il capo delle forze di destra?»
Con qualche ex amico che ti fa anche lo sgambetto…
«Orban, che è moto più abile di lei, le ha sfilato la leadership delle forze di destra ed ha fatto diventare il raggruppamento della Meloni da terza forza politica europea a quarta. Meloni ha proprio sbagliato su tutta la linea. In Europa l’ambiguità la paghi pesantemente, perché si scopre subito».
C’è da aspettarsi ora l’attribuzione di un portafoglio di minor peso rispetto al passato per il Commissario di indicazione italiana?
«In Europa non sono così sprovveduti da penalizzare pesantemente l’Italia, con la sua storia, il suo tradizionale europeismo. E secondo me potremmo ricevere un portafoglio interessante. Ma non per merito della Meloni, ma per quello che l’Italia è e soprattutto è stata: un Paese coerente, che ha sempre sostenuto e sempre cercato di far fare passi avanti all’Europa».
Potrebbe essere quella nomina a commissario per il Mediterraneo?
«Forse. Però il precedente in ambito Nato non gioca a suo favore. Si è vista tutta l’ingenuità o la mancanza di esperienza della Meloni. Lei ha chiesto che l’organizzazione prevedesse uno specifico rappresentante per le questioni mediterranee. Ma il fatto che tu lo chieda, non significa che automaticamente spetti al tuo Paese indicarlo. Ed infatti, la nomina è andata ad uno spagnolo. Non si gestiscono così le relazioni internazionali. Per fortuna in Europa vale più la nostra storia del nostro presente. La presidente ha ancora tanto da imparare. Fare politica internazionale è complesso e bisogna tener conto di tanti fattori. E soprattutto, stare a metà del guado non ti aiuta proprio».
Vedremo cambiamenti nell’organizzazione dell’Ue nei prossimi cinque anni? Si avverte ancora la necessità di un Costituzione europea?
«Secondo me, ma a volte pecco di ottimismo, in questi cinque anni qualche cambiamento importante lo vedremo. Perché non è più possibile questa staticità. Noi abbiamo tentato nel 2004 di imprimere una svolta importante, con la scrittura del Trattato costituzionale. Poi il progetto si è arenato, per colpa dei due referendum con esito negativo, in Olanda ed in Francia, legati più a questioni interne che non alla bontà dell’operazione».
Ma la questione resta sul tavolo…
«Vero, lo ha ribadito anche la von der Leyen. Sarebbe clamoroso non soddisfare questo bisogno. Un bisogno che si lega anche all’allargamento dell’Unione, fase nella quale la politica estera diventa centrale. I maggiori cambiamenti nell’Unione vi sono verificati con l’allargamento ad Est. Adesso sono in lista d’attesa per l’accesso nell’Ue, oltre ai Paesi dei Balcani occidentali, anche Georgia, Moldova e Ucraina; quest’ultima anche con un alto valore simbolico e politico. Insomma non si può pensare a questo allargamento senza cambiare i trattati; già con l’Unione a 27 qualche impaccio si vede, figuriamoci con una decina di Paesi in più».
Già eliminare il voto all’unanimità sarebbe un passo importante.
«Si, però è anche vero che siamo riusciti comunque un paio di volte a sbloccare questa unanimità, purtroppo “pagando” Orban. Rimanere bloccati per i veti non è mai un bene. Penso che vi sia piena consapevolezza di ciò, e mi aspetto quindi modifiche significative».
L’idea federalista dei padri europei, di Jean Monnet, è ancora realizzabile o resta un’utopia?
«Fanno riflettere molto, su questo, due interviste dei giorni scorsi. La prima, rilasciata da Molinari, capogruppo della Lega alla Camera, nella quale definiva la Lega partito non di destra, euroscettico, autonomista e federalista. Allora: come si può essere federalisti a livello italiano e non esserlo a livello europeo? E Procaccini (Nicola, eurodeputato di FdI – ndr) che è anche capogruppo di ECR in Europa, in un’intervista al Corriere del 13 luglio, ha detto: “Le nostre richieste si riferiscono a tre ambiti: immigrazione; transizione verde da rallentare; riforma della Ue in chiave federalista”. Queste puntualizzazioni nell’intervista, specie quest’ultimo punto, sono passate un po’sottotono, non se ne è parlato molto nel dibattito politico. Invece secondo me vanno riprese, perché che esponenti di un partito da sempre euroscettico si esprimano in questo modo, non deve passare sotto traccia».
Nel dopoguerra c’era chi, come gli autori del Manifesto di Ventotene, vedeva negli Stati Uniti d’Europa il futuro di pace e prosperità per il nostro continente. Noi abbiamo tentato di riproporre quel sogno, alle ultime elezioni.
«Con la proposta politica di Stati Uniti d’Europa, abbiamo rimesso al centro del dibattito il tema della sovranità europea, che avrebbe dovuto essere la priorità del programma elettorale sia dei favorevoli che dei contrari. Perché la cessione anche parziale della sovranità, è il fulcro della questione europeista. Non c’è stata nessun’altra forza politica in Italia che ha affrontato questo tema. Dimostrando ancora una volta che nel merito delle cose, i socialisti sono sempre avanti. Non è stato facile far passare il nostro messaggio, anche perché spesso veniva oscurato dalle continue liti tra Renzi e Calenda, che non hanno certo fatto bene a questa nuova esperienza elettorale. Anche negli altri Paesi il tema della sovranità non è stato al centro del dibattito. Della nostra determinazione a rimanere sui temi importanti per l’Europa, sono orgogliosa. Purtroppo non siamo arrivati dove volevamo».
Resta però valida l’idea del progetto Stati Uniti d’Europa?
«Ma l’idea della lista era giustissima non solo nel merito, ma anche nella modalità. Essere stati una lista di scopo ha fatto in modo che al nostro interno ci fossero candidati che, se eletti, si sarebbero collocati in gruppi diversi: socialisti, liberali e forse anche in quello dei verdi, spargendo questo seme federalista nelle varie famiglie europee. Sarebbe stato un lavoro preziosissimo. E l’idea che la lista si sia fermata allo 0,22% dall’obiettivo dello sbarramento, fa ancora tanta rabbia».