Il Governo combatte i poveri, non la povertà

di Lorenzo Cinquepalmi

Il novecento ha visto, in Italia, in Europa, e in quasi tutto il mondo, un progresso costante delle condizioni di vita delle classi più disagiate: di anno in anno, con l’eccezione del tempo di guerra, la miseria è sempre regredita, perfino sotto la dittatura. Gli ultimi decenni di capitalismo finanziario globale hanno riportato il rapporto (non solo numerico) tra grandi ricchezze e immense povertà a livelli ottocenteschi. I sei milioni di poveri assoluti censiti in Italia dall’Istat, con un aumento di un decile rispetto all’anno precedente, rappresentano il segmento più disperato di una popolazione in larghissima parte tutta impoverita: l’annientamento del ceto medio non è più solo un luogo comune, ma l’effetto dell’assenza di governo politico delle dinamiche economiche e sociali del Paese (e dell’Europa, e del mondo). La bestia del capitalismo selvaggio, senza più alcun freno, sta divorando la società e finirà per divorare se stessa, come un mostro mitologico. C’è, in Italia, un esempio paradigmatico: le principali società energetiche sono di proprietà pubblica: in Eni e Enel lo Stato è di gran lunga l’azionista di maggioranza relativa, oltre il 30%; in A2A e Iren sono grandi comuni a controllare la metà delle azioni. Eppure, tutte queste società hanno macinato extra-profitti enormi praticando tariffe altissime anche quando il costo di idrocarburi ed elettricità scendevano. E la proprietà pubblica delle stesse non è stata capace di intervenire affinché dei player di assoluta preminenza del mercato, come quelli citati, assumessero una funzione calmieratrice dei prezzi. Quegli extra-profitti hanno arricchito gli azionisti privati, il management grazie ai compensi legati alle performance, e perfino gli azionisti pubblici, lieti di portare a bilancio dividendi straordinari. Ma tutto questo è accaduto a spese dei cittadini, strangolati da tariffe e bollette insostenibili; decine di milioni di persone in progressivo scivolamento verso la povertà e, gli ultimi, già dentro la povertà. Le tariffe, la casa, la spesa, rappresentano l’equivalente, nel nostro tempo, dell’ottocentesca tassa sul macinato. Nascondersi sotto la giacca significa voler trasmettere un senso di ineluttabilità di questo impetuoso impoverimento collettivo, quasi che si trattasse di una calamità naturale contro la quale nulla si può, potendosi solo adoperare per lenirne gli effetti. Non è così. La povertà non è la grandine; essa è l’effetto dell’incapacità o, peggio, della mancanza di volontà della politica rispetto al dovere di governare i fenomeni economici. A tutti noi, e, soprattutto, a chiunque accetti la responsabilità di amministrare, a qualsiasi livello, la cosa pubblica, dovrebbero risuonare nella mente le parole di Olof Palme che, in un tempo in cui era ancora vivo il braccio di ferro tra capitalismo e comunismo, in cui l’Unione Sovietica e una Cina molto diversa da quella attuale dominavano la metà del mondo e promuovevano la rivoluzione anticapitalista, da uomo di sinistra affermava che “il capitalismo non va abbattuto, va tosato”, aggiungendo che i socialdemocratici non erano contro la ricchezza, ma contro la povertà. Oggi la ricchezza è diventata così grande e concentrata da non essere più commensurabile all’umanità dei singoli: il capitalismo finanziario globale ne ha fatto un Moloch autosufficiente e pericoloso per l’umanità stessa. Un cortocircuito di potenza contro il quale la battaglia finirà per essere all’ultimo sangue se la politica non ritroverà quella capacità di tosare enunciata da Olof Palme. Purtroppo, l’orizzonte del nostro tempo non pare capace di essere animato, almeno fino a oggi, da personaggi del calibro di Palme, ma anche di Brandt, di Mitterand o di Craxi. Le leadership europee o americane producono personaggi talmente allarmanti, da Le Pen a Salvini, da Meloni a Orban e a Trump, che perfino politici non particolarmente attraenti come Macron, Scholz o Von der Leyen finiscono per essere guardati con una qualche speranza. Solo Sanchez, in Spagna, sembra aver chiaro che questa è la battaglia del nostro tempo e pare volerla affrontare seguendo la via indicata da Palme: con un tasso di povertà paragonabile a quello italiano, le ricette socialiste spagnole producono segnali di inversione di tendenza, quantomeno sul versante dell’occupazione e dei salari. Ma la guerra santa dei pezzenti contro il carovita, i prezzi, le tariffe, che si mangiano ogni soldo che passa nelle tasche di chi non appartiene alla ormai ridottissima schiera dei privilegiati, quella è ancora di là da venire anche in Spagna. Nelle parole di Sanchez c’è, ma per essere calata nei fatti c’è bisogno di una spinta più forte, che venga dai popoli. C’è bisogno di una nuova generazione di predicatori, capaci di muovere le coscienze, che abbottonino per sempre la giacca sulla testa di chi si è accoccolato ai piedi della finanza a rosicchiare le briciole e a guardare il popolo che muore di fame.

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