di Andrea Follini
La strategia del governo israeliano era parsa chiara fin da subito, fin dal giorno seguente all’attentato terroristico di Hamas di ottobre, che ha risvegliato il leone dormiente. I pesanti bombardamenti nel nord della striscia di Gaza, preceduti dagli avvisi diramati alla popolazione palestinese residente, eseguiti dalle forze armate israeliane, hanno dato l’avvio ad un esodo di uomini, donne e bambini, verso il sud del territorio, aumentando di fatto quella insopportabile densità di popolazione che nella Striscia era già tra le più alte al mondo, con quattromila abitanti per chilometro quadrato. Dopo la pressoché totale distruzione di tutto quanto c’era di edificato nei territori del nord, operazione sul filo della legalità in quanto il diritto internazionale vieta in periodo di guerra la distruzione deliberata di edifici civili, se tale attività non è legata a necessità militari, ora analoga operazione viene programmata al sud; prossima tappa: Rafah. La città ai confini con l’Egitto, è il valico principale dal quale dovrebbero entrare gli aiuti umanitari, sempre bloccati in realtà. Ma è il valico di passaggio dal quale gli israeliani sperano che i palestinesi lascino la Striscia per fuggire in Egitto. Dal Cairo il presidente Abdel Fattah Al Sisi ha già chiarito che non vi è alcuna disponibilità ad acconsentire ad uno scenario del genere: l’Egitto non potrebbe mai avvallare questa operazione che, di fatto, lascerebbe campo libero ad Israele (e ai suoi coloni) su tutto il territorio della Striscia di Gaza. Con il timore di rivedere una riproposizione di quel tragico “settembre nero” che nel 1970 vide palestinesi e giordani combattersi tra loro. Nessun Paese della Lega araba sopporterebbe in silenzio una decisione di questo tipo. L’aggravarsi dell’instabilità nell’area è una delle principali preoccupazioni del Presidente americano Biden che, non a caso, ha ripreso i contatti con Netanyahu per mettere in guardia Israele sul fatto che un possibile attacco al sud della Striscia senza che vi sia alla base una pianificazione militare tale da preservare i civili, significherebbe l’abbandono del sostegno USA a Tel Aviv. Tutto l’apparato diplomatico si sta muovendo, con l’obiettivo di ricercare un cessate il fuoco, del quale il primo ministro israeliano non vuol però sentir parlare, prima che tutti gli ostaggi israeliani ancora in mano ad Hamas siano stati liberati. L’attività diplomatica è quindi in corso: non solo il Segretario di Stato Blinken è impegnato nel suo quinto viaggio nelle capitali del Medio Oriente, ma lo stesso Abu Mazen è volato in Qatar per definire un piano per il dopo guerra ed il re di Giordania è stato ricevuto a Washington dal Presidente Biden. In questa situazione, mentre pare di assistere alle ultime trappe di un percorso fatale per il popolo palestinese della Striscia, non cessa l’emergenza umanitaria, conclamata ormai in un territorio così devastato, dove manca davvero tutto. Tommaso Della Longa, portavoce della Federazione Internazionale di Croce Rossa e Mezza Luna Rossa (IFRC), cui abbiamo chiesto quale sia la condizione della popolazione palestinese, oggi in gran parte ammassata nel sud della Striscia, ci descrive uno scenario apocalittico. <<L’aspetto sanitario ci preoccupa moltissimo e siamo ad un livello di vera disperazione – ci dice Della Longa -. Dobbiamo ricordare che partiamo da una situazione che era molto difficile e precaria già ben prima del 7 ottobre. La guerra, così devastante e così intensa, ha portato in quattro mesi a dei livelli inimmaginabili la condizione sanitaria nella Striscia. Le strutture rimaste, che in qualche modo cercano di dare un sostegno sanitario ai civili palestinesi, sono meno del 30% di quelle esistenti, con scarsità di acqua, cibo e medicinali. Dove si amputano gli arti senza anestesia, come senza anestesia si operano i parti cesarei. Una situazione che come Croce Rossa avevamo già pronosticato alcuni mesi fa>>. Della Longa non nasconde la crescente preoccupazione anche per il personale in servizio <<Le prime telefonate al mattino verso i nostri presìdi a Gaza, sempre che i telefoni funzionino, sono per chiedere se i nostri operatori siano ancora tutti vivi. Sembrerà sconcertante ma è così ogni mattino. Perché il personale delle ambulanze della Mezza Luna Rossa, che sono attive nella Striscia, ha già pagato un prezzo altissimo in termini di vite umane. Molti dei nostri mezzi sono rimasti coinvolti direttamente nei bombardamenti mentre prestavano soccorso ai feriti; altre sono state danneggiate dalle bombe cadute nei parcheggi; il numero stesso dei mezzi di soccorso è diventato fortemente inadeguato ai reali bisogni. E più il conflitto va avanti, più la situazione ovviamente peggiora>>. Non si vede la luce dal tunnel di questa disperazione. Non si vedono nemmeno segnali concreti, al di la degli sforzi diplomatici, della volontà di modificare lo stato delle cose da parete dei Paesi occidentali. Tiepidi segnali, ma chiari, arrivano da alcuni Paesi europei come Irlanda e Spagna, anche se manca un indirizzo inequivocabile dell’Unione europea. La presa di posizione dell’Alto commissario per le politiche di Sicurezza Borrell sull’Unrwa, fanno sperare in un cambio di passo. Anche nel nostro Paese qualcosa si muove; prima nelle piazza e poi anche nei Palazzi, e gli abboccamenti delle due leader dei maggiori partiti di destra e sinistra per ricercare una sintesi, sembrano portare verso la definizione di una linea comune di intervento. Anche se manca, e molto, quella risolutezza nella partigianeria che, nei tempi dei socialisti al governo, ci vedeva senza indugio vicini ai popoli in lotta per la libertà. Viene da chiedersi cosa ne pensasse Ugo Intini, recentemente scomparso, che tanto di Medio Oriente ha scritto sia nelle pagine dell’Avanti! che nei molti suoi libri, ricordando la vicinanza socialista al popolo palestinese. Il tempo dell’attendismo ormai è finito ed i possibili scenari futuri, nel perdurare dell’immobilità attuale, non possono che delinearsi ancora più tragici. Serve agire. E alla svelta.