di Redazione
Trent’anni sono un tempo abbastanza lungo per iniziare a leggere gli eventi con le lenti della storia. Questa regola però sembra non valere per Bettino Craxi e i processi che hanno fatto calare una “damnatio memoriae” su di lui e su gran parte della storia del socialismo italiano. Ancora oggi, infatti, è impossibile affrontare un discorso equilibrato sulla figura di Craxi, senza scadere nel giustizialismo o nel vittimismo. Merito del libro “Damnatio memoriae. Mani Pulite e i processi a Bettino Craxi” (Libertateslibri), scritto dal giornalista Fabio Florindi e dall’avvocato Roger Locilento, è quello di affrontare l’argomento basandosi sulle carte processuali e sul contesto storico-giudiziario nel quale le inchieste maturarono. Dall’analisi formulata dai due autori emerge un dato inconfutabile: non c’è un documento che inchiodi Bettino, le sentenze di colpevolezza arrivano sulla base di testimonianze, rese spesso da coimputati che avevano tutto l’interesse a sminuire le loro colpe. Coimputati che a volte vengono messi in galera, aspettando che si chiariscano le idee. Nella stragrande maggioranza dei casi tra l’altro, sfruttando una legge dell’epoca, quelle accuse vengono riferite solo ai pm, impedendo alla difesa di contro-interrogare gli accusatori. Tutti elementi che dovrebbero porre seri dubbi sull’attendibilità di quelle testimonianze. Tra le migliaia di carte dei processi, si può prendere l’esempio di Silvano Larini per l’inchiesta sulle tangenti della Metropolitana Milanese, ma le altre indagini si sviluppano grosso modo con lo stesso criterio. Sulla Metropolitana Milanese ogni partito aveva il suo “cassiere” (dal Pci-Pds ai liberali) e Larini era il referente socialista. Dopo una latitanza di un anno, si consegna ai magistrati, fornendo una confessione fiume. Sostiene che consegnava le buste con le tangenti lasciandole nella sede del Psi di piazza Duomo (dove avevano gli uffici sia Craxi sia l’amministrazione del partito) e che in qualche occasione aveva dato il denaro direttamente a Bettino. Larini sconta solo pochi giorni nel penitenziario di Opera (un carcere molto più vivibile di San Vittore, dove invece venivano portati quasi tutti gli indagati di Mani Pulite) e poi torna a casa. Ma c’è un problema: la ex segretaria di Craxi, Enza Tomaselli, smentisce la ricostruzione, sostenendo che Larini lasciava le buste sulla sua scrivania e le passava a ritirare sempre il segretario amministrativo, mai Craxi. Per quelle dichiarazioni Tomaselli sconta circa 6 mesi di carcere, a più di sessant’anni, senza mai cambiare versione. Il Tribunale condanna Bettino per finanziamento illecito e corruzione e la Corte d’Appello conferma la sentenza con un passaggio surreale: “Si può anche dar atto a Craxi che in questo processo non è risultato né che abbia sollecitato contributi al suo partito né che li abbia ricevuti a sue mani, ma questa circostanza – che forse potrebbe avere un qualche valore da un punto di vista per così dire estetico – nulla significa ai fini dell’accertamento della responsabilità penale”. Una prima sentenza della Cassazione, però, rimanda indietro il processo, sostenendo che le corti di primo e secondo grado erano giunte alla condanna dando un’intrinseca attendibilità a Larini, attendibilità che invece andava provata. Nonostante ciò, la nuova sentenza di appello ricalcherà la vecchia, valorizzando qualche aspetto secondario e condannando nuovamente Craxi. La Cassazione questa volta conferma la condanna, sottolineando incredibilmente che “la prova della attribuibilità di singoli fatti storici (in ipotesi costituenti reati) a un determinato soggetto può essere ricavata anche da argomentazioni logiche”. Ma era proprio il sillogismo che la prima sentenza degli ermellini aveva cassato. Non si pensi a un caso isolato. Tutti gli altri processi “milanesi” che hanno riguardato il leader socialista, da Eni-Sai a Enimont passando per All Iberian, contengono forzature simili. Craxi era un politico del suo tempo, accettava il finanziamento illecito ai partiti come qualcosa di normale. Qualcosa che era connaturato alla fragile, e anomala, democrazia italiana del secondo dopoguerra. Ha sempre ammesso di essere a conoscenza del meccanismo in generale, ma ha rigettato le accuse di corruzione o concussione su episodi specifici. Poteva nascondersi, come hanno fatto quasi tutti i leader politici dell’epoca, invece ha voluto affrontare di petto la situazione, com’era nel suo carattere: ammettendo la natura irregolare di larga parte dei finanziamenti ai partiti, ma al contempo denunciando le forzature e i metodi usati dai pm per estorcere confessioni. Una sincerità che ha pagato a caro prezzo, con una “damnatio memoriae” che dura ancora oggi.