Consip: i processi di piazza non combaciano mai con la realtà

di Conantonio d’Elia

È giusto che l’informazione anticipi i risultati dell’indagine? E se poi la sentenza dice tutta un’altra verità rispetto a quella raccontata in cronaca? Il Caso Consip ieri avrebbe potuto giungere alla delegittimazione di una compagine di governo, l’altro ieri il caso Tangentopoli è servito proprio a questo. La storia insegna che i processi di piazza mai combaciano con la verità, ma su questo troppo spesso cade l’oblio. Il Caso Consip ci consegna un unico risultato lampante e incontrovertibile, ossia la accecante mediocrità dei protagonisti (e non sono questi gli indagati: a ben vedere in otto anni di indagine hanno tenuto banco più che i fatti di appalti e corruzione, le vicende tra le Procure di Roma e Napoli, le fughe di notizie e il comportamento degli investigatori) e non tanto perché per l’ennesima volta nella storia delle vicissitudini giudiziarie della politica del Paese non ci si è resi conto che si stava mettendo “il carro davanti ai buoi”, ma soprattutto perché ancor peggio si è fatto in modo di rendere ridicola tutta la vicenda tra fughe di notizie e violazioni ripetute del segreto di ufficio (con strascichi giudiziari e disciplinari). Questi due elementi, uniti, portano poi a quella bruttissima abitudine che è la sentenza ancor prima del processo: dall’intento al fatto (quando dovrebbe essere il contrario, secondo la Costituzione), con buona pace di Galileo Galilei e il suo principio scientifico (e la giurisprudenza è scienza), offuscato dalla reviviscenza dell’ipse dixit aristotelico. E questa è aberrazione! Il socialismo ha reso bandiera di cultura giuridica il principio della libertà di pensiero e di parola, ma il corollario che ne deriva, il diritto all’informazione giammai può cozzare con la dignità dell’individuo, il cui corollario è il diritto all’equo processo, e il fondamento è quel troppe volte bistrattato principio di innocenza, anche se i giustizialisti preferiscono “non colpevolezza”, che proprio pare ricadere nella bieca teoretica del “mettere le mani avanti”. E allora che innocenza sia! Sia l’innocenza presunta dell’indagato un valore indiscusso del processo penale: sono decenni, dal post Tangentopoli, che giuristi e pensatori illuminati urlano lo sconforto interiore di un sistema che vuole un cittadino già condannato al solo ricevimento di una semplice informazione di garanzia. Quei protagonisti della vicenda Consip hanno ora il dovere morale di riparare il danno morale degli indagati, indipendentemente da quanto, questi ultimi, possano avere una moralità discutibile. Ma qui la legge manca! Bisogna, in un’ipotesi de iure condendo, fare che il “segreto di ufficio” ottenga una diversa collocazione concettuale, per passare da strumento di tutela delle indagini a strumento di tutela dell’indagato, che poi a ben vedere è restituire un senso di pudicizia all’intero sistema delle indagini penali.

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