di Giada Fazzalari
Un uomo singolare, irriproducibile. Tutto e il contrario di tutto, il paradigma della contraddizione, dell’essere una cosa ma anche il suo opposto. Più che un combattente, come da molti è stato definito, Berlusconi è stato un vero e proprio fenomeno del mainstream. Conservatore e riformista , credente e miscredente, politico e imprenditore, solido ma imprevedibile, esuberante e irrequieto. Interprete di un Paese del quale ha rappresentato vizi e virtù e assecondato gli istinti e le debolezze: insofferenza per le regole, smania di sregolatezza, esaltazione del politicamente scorretto. Un’esistenza all’insegna del culto di se stesso, vissuta tra palco e realtà, tra colpi di teatro ed eccessi. Una vita spericolata, una vita spettacolare. Carismatico, vanitoso, avido di consenso, incurante dei rituali istituzionali, istrionico e melodrammatico, eccessivo ai limiti dell’incoscienza, rapito da un’autoglorificazione cialtrona e grottesca, perennemente alla ricerca del potere vertiginoso, che concentrasse in sé politica, potere economico, affari e monopolio della comunicazione. Spregiudicato nella sua lotta alla “magistratura politicizzata”, campione del dribbling giudiziario, circondato da molti emulatori e pochi amici (e da una classe dirigente mediocre) in fondo solitario e solipsista, incurante di qualsiasi etichetta, schiavo di se stesso e del suo mondo costruito a sua immagine. Invadente fino a diventare insopportabile per quel pezzo di Paese, la medietà italiana, che ha poi finito per emularlo. Perché con Berlusconi è saltato il modello sociale che l’Italia aveva conosciuto sin lì. Rotto il confine tra il pubblico (polveroso, antico e decrepito) e il privato (moderno, patinato e avveniristico) ecco il preludio di una nuova egomonia culturale, dell’uomo nuovo, che aveva bene interpretato lo stato d’animo che già ribolliva nel Paese, via via che tangentopoli travolgeva quel che restava della prima repubblica. La politica non era il suo mestiere ma proprio l’esercizio della politica, prima e dopo il primo ingresso di Berlusconi nella scena pubblica, è stato radicalmente diverso. La cosiddetta seconda repubblica rimarrà sempre indistinta e incompiuta, ma l’esaurimento della prima nel ’94, era ormai un fatto e una nuova epoca bussava già alle porte. La sostanziale scomparsa dei partiti di massa del ‘900, con le loro liturgie (che tuttavia rispecchiavano e rispettavano l’obbligo costituzionale del metodo democratico, insieme all’accentuata personalizzazione e all’enfatizzazione della figura del leader, in un quadro di populismo deresponsabilizzante) rappresenta senza dubbio un mutamento radicale dell’interpretazione del ruolo della politica nella società e nel governo del paese. Se Berlusconi è stato senz’altro l’uomo che ha introdotto il modello elevandolo a sistema, è evidente che questo sistema è stato adottato e rafforzato da tutte le forze e da tutti i leader fino ad oggi. È destinato a sopravvivere al suo artefice? La scomparsa di un archetipo così ingombrante costituisce un’occasione. E, considerato che il trentennio del leaderismo populista ha coinciso con un periodo di crescita economica bassa come mai prima, di drastico peggioramento sociale e di un generale impoverimento della sensibilità politica degli italiani, tradotta nell’egoistico disinteresse per la gestione della cosa pubblica, allora non c’è dubbio che l’occasione sia promettente, a condizione che nuove leadership, più generose e idealistiche, sappiano coglierla. Con Berlusconi, insomma, muore un sistema, ne nasce un altro. E con la sua scomparsa muore la cosiddetta seconda repubblica (è mai nata?). Sta ad una classe dirigente nuova e migliore ricostruirne una nuova. Berlusconi ha frantumato uno schema politico in cui le forze in campo avevano una solida struttura ideologica. Uno schema che potrebbe rappresentare la fine di una stagione in cui il Paese ha fatto, oggettivamente, grandi passi indietro. Una stagione che ha aperto la strada a un bipolarismo imperfetto e che, forse, non a caso si estingue con il crepuscolo del berlusconismo, già iniziato ben prima della sua morte. La rivoluzione liberale che richiamava a Gobetti, ripetuta come un mantra, non c’è mai stata. Fu un’idea avversata dagli irriducibili professionisti dell’antiberlusconismo ma che a una parte del Paese sembrò idea affascinante, figlia del reflusso di una stagione che aveva conosciuto il più violento scandalo politico giudiziario di sempre. Non si può negare abbia rappresentato un racconto dell’Italia moderna e che abbia cambiato la storia dell’Italia. Forte di un pericoloso presentismo senza memoria. A suo modo fu precursore e innovatore. Ha ragione chi sostiene che abbia scelto di non avere un erede. Forse perché il ‘modello’ non è replicabile. Aveva un cruccio: non voleva uscire di scena. Temo non succederà. Ma come sempre, sarà la storia a giudicare.