di Andrea Follini
Sono passati anche i cento giorni dal riaccendersi del conflitto israelo-palestinese. L’attacco contro civili israeliani inermi perpetrato dai terroristi di Hamas ha riacceso la miccia in un territorio che non conosce la pace da tanti anni. Centro di una contesa di cui si perde anche il ricordo, alimentata unicamente dall’odio ed assetato di una violenza che non disseta. Solo raramente nel passato le parti in causa hanno trovato dei deboli compromessi che hanno fatto ben sperare i sostenitori della pace. Compromessi che si sono sciolti come neve al solo dopo il nuovo lembo di terra sottratto ai palestinesi o dopo la prima sassaiola contro i blindati di Tel Aviv. È chiaro a tutti che le ragioni del conflitto non sono solo religiose o territoriali; sono per lo più politiche. Da un lato e dall’altro della barricata, è la convenienza politica di pochi che fa riaccendere il fuoco. La destra israeliana al potere ha interesse a difendere un nazionalismo esasperato, perché è la fetta di elettorato che in questo si riconosce che gli consente di stare al potere; senza di esso tornerebbe in campo la ricerca di equilibrio, come fu in passato con grandi statisti israeliani laburisti. Non è diversa la situazione in Palestina, dove la convenienza di Hamas sta proprio nella situazione che il popolo palestinese sta subendo: fomentare l’odio contro Israele e fare proseliti per poter dire un domani di essere l’unico interlocutore credibile per far finire il conflitto, e costringere così gli ebrei a sostenere economicamente l’unico interlocutore presente. Lo è stato nel recente passato e forse lo sarà anche nel futuro. Ma nel mentre, regna la disperazione. Sono disperati i parenti e gli amici dei circa centotrenta ostaggi ancora nelle mani di Hamas; continuano a scendere in piazza per chiedere al proprio governo di agire per liberarli e riportarli a casa. Una protesta che ha coinvolto molti cittadini israeliani, consci che non è questo l’obiettivo primario del governo Netanyahu; al premier il conflitto fa comodo: più dura, più lontana sarà la sua messa in stato d’accusa. Ma intanto gli ostaggi israeliani a Gaza muoiono, sotto le bombe dell’esercito e dell’aviazione isrealiani. Lo abbiamo visto anche recentemente. Così come sono morti più di ventitremila palestinesi civili, i cui primi nemici sono proprio gli uomini di Hamas che tutta questa situazione hanno scatenato. Ventritremila morti per cercare un manipolo di terroristi è un bilancio spropositato. Si interrogano su questo gli Stati Uniti, che hanno ripetutamente chiesto a Netanyahu di modificare la propria strategia offensiva. Lo hanno chiesto le Nazioni Unite, seppure con una voce assai debole. Il Papa chiede la fine di questo come di tutti gli altri conflitti nel mondo, che non portano a nulla se non distruzione e morte, e appare il più lucido tra gli uomini di stato del pianeta. Lo ha chiesto anche il Sudafrica alla Corte di Giustizia dell’Aia, etichettando l’agire di Israele nei confronti del popolo palestinese con un termine che spaventa e riporta indietro nel tempo a pagine buie dell’umanità: genocidio. Cioè l’alienazione – e la cancellazione – di un intero popolo, del suo retaggio culturale, del suo essere più pieno. A Gaza, o meglio, in ciò che di essa rimane, si muore sotto le macerie delle case e degli ospedali bombardati; si muore per l’assenza di cibo e di medicinali; si muore per le epidemie che cominciano a diffondersi. Ma si muore anche perché si sta guidando un’ambulanza, come ha ripetutamente denunciato la Mezza Luna rossa. Cento giorni sono tanti, così come tanta è la distruzione e la carneficina che in quella parte di territorio palestinese di sta registrando. Per quanto tempo il mondo starà a inerme a vedere? Ma quale speranza può esserci nell’allargamento di un conflitto dagli sviluppi così incerti. Intanto Israele, dopo aver attaccato il nord di Gaza, aver fatto fuggire verso sud la popolazione che li si è concentrata, ha attaccato anche il centro ed il sud della Striscia; secondo il ministero della salute palestinese, più della metà degli edifici nella Striscia sono distrutti; ci sono 1,9 milioni di sfollati, l’85% della popolazione. Intanto Israele ha esteso la ricerca degli uomini di Hamas anche in Cisgiordania; lo scorso 15 gennaio un commando militare ha attaccato l’università di Nablus arrestando 25 studenti intenti ad un sit-in di protesta. Tutte azioni che certo non alimentano la ricerca del dialogo e nemmeno allontanano l’espansione di un conflitto animato da chi non attende che pretesti. I primi sono già arrivati. Non tarderanno i prossimi. A quel punto, anche le parole saranno superflue.