Una riforma a metà

di Enzo Maraio

La riforma che prevede la separazione delle carriere approvata al Senato ha davanti un iter ancora lungo ed è l’ennesima riforma a metà del Governo Meloni. Non è quella che la destra raccontava durante la campagna elettorale del 2022. Quella a noi sarebbe andata anche bene. Anzi, nel perfetto stile della maggioranza di Giorgia Meloni, è stata approvata una norma-spot ma si è accompagnata ad una campagna di comunicazione come fosse una riforma già approvata. Non è la prima volta sulle questioni della giustizia, con il Ministro Nordio. E poco importa se per la piena attuazione della riforma costituzionale occorrono altri due passaggi parlamentari, verosimilmente un referendum e alcune leggi successive all’approvazione definitiva per la piena attuazione. Non solo. La riforma delle carriere dei magistrati arriva in un momento storico in cui nuovamente vengono accesi i fari sulla politica: dal caso Milano – dove i veri “condannati” al momento sono le centinaia di famiglie che hanno acquistato una casa, oggi sotto sequestro, spendendo centinaia di migliaia di euro senza alcun beneficio – al caso Marche dove il candidato alla Presidenza della Regione, Matteo Ricci, riceve un avviso di garanzia il giorno dopo l’indizione delle elezioni regionali. Così, pur avendo ragione Di Pietro quando dice che non si tratta di una nuova “Mani pulite” – lui da artefice conosceva bene il compito che aveva, ovvero quello di distruggere una intera classe politica che non si piegava alla magistratura – mai avremmo pensato che dopo le famose “toghe rosse” ci saremmo dovuti oggi difendere dalle “toghe blu”. Sarebbe auspicabile che oggi, destra e sinistra, usassero prudenza e rispetto, prediligendo il garantismo verso gli indagati senza farsi prendere da smanie iper populiste e giustizialiste. Tutti gli indagati, fino alle sentenze definitive, hanno il diritto di portare avanti il proprio lavoro e i propri incarichi. È un principio costituzionale e per noi socialisti, ancora oggi, la politica va sottoposta al voto popolare, va giudicata sui fatti e non sugli avvisi di garanzia, che spesso non portano a nulla se non alla distruzione della vita di qualche politico e soprattutto delle loro famiglie. Ecco perché sappiamo da che parte della storia stare: la politica non si faccia dettare l’agenda dalla magistratura, sia più autonoma, più coraggiosa, sia pronta, soprattutto a sinistra, ad una seria autocritica su trenta anni di errori e sponde inutili.

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