di Lorenzo Cinquepalmi
A prima vista, una guerra sembra essere in corso tra magistratura e governo, col secondo che, come da tradizione ereditata, “tira dritto” sul disegno di legge costituzionale che separa radicalmente le carriere dei magistrati inquirenti da quelle dei magistrati giudicanti, mentre la prima, o meglio una parte di essa, attraverso l’Associazione nazionale magistrati, si straccia le vesti strepitando che l’esecutivo sta imponendo il controllo governativo sulle Procure, cosa onestamente non vera, stando al testo della riforma. Pare, onestamente, una grande recita. La separazione delle carriere è importantissima per il suo impatto culturale sull’universo giustizia, ma va riconosciuto il vero quando Anm afferma che il transito da una carriera all’altra, con le norme attuali, è pressoché inesistente. A bruciare davvero è la separazione dei Csm, coi pubblici ministeri estromessi dalle nomine degli incarichi direttivi degli uffici giudicanti. Nel contempo, se la pressione delle Procure sulla politica è un fatto incontestabile, è altrettanto innegabile che il governo, e meno che mai l’ineffabile ministro di giustizia, non stiano ragionando in alcun modo su misure idonee a impedire che la pubblicità di iniziative della magistratura inquirente influenzi le consultazioni elettorali, forse anche perché il bersaglio prediletto di queste attività, da qualche tempo a questa parte, passando da Milano a Pesaro, pare essere il centrosinistra. Tutto questo impone di riflettere sull’approssimazione con la quale si dice “la magistratura” o “la politica”. Infatti, la gran parte dei magistrati è e si mantiene estraneo alla guerriglia in corso, al di là di una solidarietà di casta, più di facciata che reale. E, in effetti, la gran parte dei magistrati, pressoché tutti quelli del ruolo giudicante e, comunque, una buona parte di quelli del ruolo requirente, si mantengono estranei al braccio di ferro giocato sull’esercizio del potere spurio di condizionamento della politica. C’è poi un nocciolo duro di pubblici ministeri aggrappati alla prerogativa di piazzare nel campo politico dei colpi capaci di annientare carriere, cambiare destini, minare alleanze, suggestionare risultati elettorali. A questa prevaricazione di una minoranza corrisponde la debolezza della frammentazione che caratterizza la politica italiana rispetto alla giustizia, frammentazione tra le forze politiche e dentro le forze politiche, in cui ciascuna frazione o singolo leader ondeggiano tra il vellicare il contropotere giudiziario e il reagire ai suoi attacchi. In tutto questo, ciò che evidentemente manca è una visione ampia e profonda, in un campo e nell’altro. La magistratura resta, suo malgrado, caratterizzata da quella sua minoranza composta di singoli che giocano in proprio, attenti al proprio destino e poco interessati all’ideale della loro alta funzione: la vicenda Palamara non è stata un’eccezione, ma la manifestazione di una regola. Correlativamente, però, la politica, in generale ma più ancora sul terreno della giustizia, è ridotta a una guerra per bande guidate da capitani di ventura, che, nello slalom tra i colpi di artiglieria delle Procure, godono della disgrazia altrui e fanno di tutto per schivare i colpi. In tutto questo spicca l’inadeguatezza dell’attuale ministro che, dopo aver tradito in tre anni tutte le promesse dell’esordio, si esercita nelle arti del galleggiamento e del compiacimento, ma mai in quella del governo. I temi sui quali un guardasigilli dovrebbe ingaggiare la sfida sono gli stessi da anni: l’eccesso di carcerazione, lo scandalo delle migliaia di ingiuste detenzioni seguite da assoluzioni, il cortocircuito magistratura – informazione, sovraffollamento e condizioni disumane nelle carceri, arbitrarietà nei tempi dei processi che si traduce nella loro dilatazione con la scandalosa dissonanza tra accelerazioni e rallentamenti, tra processi fulmine (pochi) e processi lumaca (i più). Su tutto questo, dal deludente ministro Nordio solo parole, per di più confuse, e niente fatti. Possibile che in quel ministero inzuppato di magistrati fuori ruolo non si riesca ad elaborare una sola risposta decente a questi problemi? Il perdurante fallimento della digitalizzazione del settore penale è lì a dimostrare come il vertice decisionale dell’amministrazione della giustizia sia senza nerbo e senza idee. E anche per questo, per l’inettitudine del luogo di sintesi tra politica e magistratura, la guerriglia tra le stesse continua. E finché non ci sarà un ministro capace, forte e autorevole, non potrà che continuare.