Ucraina: dal summit di Washington nessuno spiraglio di pace

di S.A.

Il confine tra successo e disfatta è spesso sottile, questione di centimetri. I consiglieri del Presidente Trump devono aver fatto capire al capo della Casa Bianca che stava pericolosamente danzando lungo questa sottile linea, e forse per questo l’ex tycoon deve aver cambiato impostazione e tono nei confronti sia dell’Ucraina, sia degli alleati europei. Solo in questo modo si spiega il sorprendente summit di lunedì 18 agosto alla Casa Bianca, che segue l’altrettanto stupefacente incontro con Putin ad Anchorage, in Alaska, il giorno di Ferragosto. In soli tre giorni, il leader della più grande potenza del mondo libero è passato dall’applauso sul tappeto rosso all’autocrate russo, alle pacche sulle spalle ed alle battute spassose con Zelensky. Lo stesso che, appena pochi mesi prima, nella stessa Casa Bianca e durante un altro bilaterale a suo modo storico col padrone di casa, era stato trattato con fastidio, maltrattato pubblicamente e quasi insultato. Alla fine, Zelensky torna da Washington rassicurato sul sostegno occidentale (sono in arrivo almeno cento miliardi di armi dagli alleati) e con la promessa di ricevere le garanzie che chiedeva invano da mesi. Putin, invece, che era tornato trionfante dall’Alaska che già fu una provincia russa, ha dovuto prendere atto che è ancora tutto in alto mare. In passato, a cavallo tra fine Settecento e fine Ottocento, i soldati ed i mercanti di pelli ed avorio agli ordini dello Zar sbarcavano sulle rocciose ed impervie coste dell’Alaska in cerca di gloria e bottino. Li attendeva una terra gelida, selvaggia ed inospitale, piena di belve feroci e tribù di pellirosse bellicose ed indomite. Questa volta, invece, l’erede degli Zar è tornato trionfante e sicuro di aver fatto bottino pieno ad Anchorage mentre, meno di tre giorni dopo, è arrivata la doccia gelata da Washington. Non è il primo colpo di scena, e probabilmente non sarà neanche l’ultimo, in questo conflitto che dura dal 2014, anche se spesso tendiamo a dimenticarcene e pensiamo che la guerra sia scoppiata all’improvviso, e senza alcun apparente motivo, due giorni dopo San Valentino del 2022. La crisi covava da ancora prima, anche se l’Occidente ha spesso preferito non vederla. Nel 2014, tuttavia, il conflitto era circoscritto al solo Donbass e si sarebbe potuto, e dovuto, cercare di chiuderlo per evitare che si allargasse. Invece l’amministrazione americana del tempo, ovvero quella di Obama, e le maggiori cancellerie occidentali, rimasero inattive limitandosi a mettere solo delle sanzioni alla Russia. È stata proprio questa grave sottovalutazione della determinazione e della potenza russa a portarci al punto in cui siamo adesso. Lo stesso errore, specularmente opposto, lo hanno commesso gli alti comandi russi ritenendo l’Ucraina un Paese quasi indifeso ed una facile preda: dopo i gravi rovesci subiti nel biennio 2022-2023, però, hanno cambiato registro ed ora agiscono con molta più sapienza tattica. Nel mezzo, come in tutte le guerre totali, ci sono le vittime civili: tanto tra i filorussi che tra gli indipendentisti, si allunga la lista di bambini, vecchi ed altri civili inermi, che sono stati falcidiati in modo feroce ed assurdo. Il colloquio tra Putin e Zelensky, se veramente si terrà a fine agosto, come annunciato da Trump, sarà il primo tra i due leader dal 2019, quando s’incontrarono insieme al Presidente francese Macron ed alla Cancelliera di Germania, Merkel, nel cosiddetto “formato Normandia”. La Russia non tenne fede agli accordi presi, così come non aveva rispettato i precedenti accordi di Minsk, e negli anni si sono verificate numerose violazioni degli accordi presi. Il Presidente degli Stati Uniti di allora, un certo Donald Trump, si disinteressò della questione, salvo rifornire l’arsenale ucraino di missili Javelin ed altre armi che si sono rivelate fondamentali per frenare l’avanzata russa nel 2022, e così siamo arrivati alla situazione odierna. Si poteva evitare, questo inutile spargimento di sangue? Probabilmente sì, se l’Occidente avesse agito in maniera compatta, decisa, forte ma mostrando anche attenzione alle esigenze russe. Probabilmente si è fatto troppo affidamento sui numeri e sulla logica, che suggerivano che un Paese di dimensioni demografiche ed economiche abbastanza ridotte, come la Russia, non avrebbe potuto sostenere un prolungato conflitto. E invece, dopo dodici anni, di cui tre e mezzo di guerra aperta e totale, la Russia, seppur fiaccata dalle sanzioni e bloccata dalla strenua resistenza ucraina, è ancora in piedi e motivata a lottare. Forse gli strateghi occidentali hanno dimenticato le lezioni del passato e dovrebbero rileggere Guerra e Pace, insieme ad altri capolavori della letteratura russa. I numeri spiegano molte cose ma non dicono tutto, specie quando si ha di fronte un popolo determinato come quello russo. E gli ucraini hanno dimostrato di non essere da meno. In questo frangente, che fa l’Italia della Meloni e della destra che “vuole fare la storia”? Incapace di fare da ponte tra l’America e l’Europa, ed essendosi inimicata la Russia, a Meloni e soci non è rimasta altra soluzione che accodarsi ai Volenterosi europei, accettarne la guida e l’impostazione in cambio di qualche foto e dell’invito al tavolo che conta. Senza, peraltro, che Roma riesca a far valere le sue ragioni nel chiedere un maggior impegno della Nato né sul fronte Sud, che ci coinvolge direttamente, e neanche nei Balcani, polveriera pronta ad esplodere che si trova davanti alle nostre coste. Siamo spettatori, o al massimo attori non protagonisti, di sceneggiature scritte altrove e basate sulle esigenze, le ambizioni e le paure di altri. Di fronte alla tragedia ucraina siamo come tanti comandanti Schettino che assistono inermi al naufragio. Ci vorrebbe qualche capitano De Falco che ci urlasse all’orecchio un “salga a bordo…cribbio!”. O qualcosa del genere.

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