di Giada Fazzalari
Si chiamava Anas Al Sharif, aveva 28 anni, ed era diventato uno dei volti più noti di Gaza grazie al suo lavoro di reporting dal 7 ottobre 2023. Con lui Mohammed Qreiqeh, corrispondente di Al Jazeera, 33 anni. Momen Aliwa, 31 anni, cameramen. Ibrahim Zaher, operatore per le riprese, 25 anni. Mophammed Noufal, assistente, 29 anni. La settimana scorsa, nella notte di domenica, l’esercito israeliano ha attaccato una tenda a Gaza che ospitava i giornalisti, di cui cinque sono morti e portano a 280 il numero degli operatori dell’informazione deceduti, una cifra senza precedenti nella storia moderna dei conflitti. Tutto fa pensare ad una strategia offensiva per mettere a tacere le loro voci, un folle attacco deliberato con l’obiettivo di gettare discredito su ciò che sta accadendo a Gaza. Un vero e proprio crimine di guerra, un bersaglio da zittire, eppure i giornalisti sono civili, non obiettivi militari. C’è di più: Anas Al Sharif è stato identificato come terrorista. Dire che coprisse le sue attività terroristiche – fatto non verificato – getta una luce raccapricciante anche sulla sua morte. Reporter sans Frontièere ha chiesto una indagine indipendente, che dia una protezione immediata per i reporter che lavorano nel luogo più pericoloso al mondo per la libertà di stampa. Questo perché oltre alla morte degli operatori palestinesi, in quella parte del mondo è vietato l’ingresso, da parte di Israele, alla stampa occidentale. Perché quella è una guerra, dove si consuma un orrore che non deve essere raccontato dai giornalisti. Se è vero che il giornalismo è il cane da guardia della democrazia, nel momento in cui i dati definiscono uno stato di grande difficoltà della professione, significa dire che è la democrazia, nel mondo, in una grande parte del mondo, ad essere a rischio. I giornalisti morti a Gaza hanno documentato in modo sistematico i massacri e gli atti terroristici a Gaza. Hanno raccontato le storie delle vittime innocenti e fatto vedere al mondo le verità che il governo israeliano credeva di poter seppellire sotto centinaia di tonnellate di missili e bombe, in quello che le Nazioni Unite hanno chiamato un cimitero a cielo aperto. Questo è diventato oggi Gaza, dopo che per anni è stata un carcere a cielo aperto. Quando dieci anni fa fu adottata la risoluzione Onu sulla protezione dei giornalisti nelle zone di conflitto, non avremmo mai immaginato che potessero addirittura, come accade oggi, morie di stenti, provati persino dalla fame, oltre che uccisi dai missili. Una strage che non dimenticheremo, una strage dei testimoni.