di Lorenzo Cinquepalmi
“Svilente”. Il termine che meglio descrive lo stato della nostra giustizia. È l’aggettivo che adopera il Tribunale della Libertà di Milano per annullare, anzi, demolire l’ordinanza con cui il Gip aveva mandato ai domiciliari l’architetto Alessandro Scandurra, componente della Commissione paesaggio del Comune di Milano: “la semplificazione argomentativa è svilente”. Semplificazione con cui il Gip ha deciso di privare un uomo della libertà, facendo il copia-incolla della richiesta di arresto della Procura, altrettanto povera di argomenti: niente gravi indizi di corruzione, quadro accusatorio confuso. La vicenda è un esempio limpido delle ragioni per cui la personalizzazione delle funzioni requirenti, il protagonismo dei pubblici ministeri e, soprattutto, la sconfortante mancanza di terzietà di molti dei giudici delle indagini preliminari, rappresenta uno dei problemi più gravi della giustizia italiana. Quante prime pagine di giornali e telegiornali ha occupato la “nuova tangentopoli” milanese? Con la solita mazurka giornalistica gli arresti, tutti annullati, sono stati definiti un’azione salvifica per bloccare la “degenerazione della gestione urbanistica”, con una “inchiesta terremoto”. Questa danza macabra che si ripete ciclicamente da decenni, oltre a lasciare sul terreno vite, famiglie e carriere spezzate è, appunto, svilente per l’idea stessa di giustizia, declassata da baluardo delle libertà a contesa carrieristica di bande corsare in cui si mescolano magistrati, giornalisti, politici, che in comune hanno essenzialmente la disinvoltura con cui fanno delle loro funzioni il trampolino per salire una scala che qualsiasi persona retta contemplerebbe con disgusto. Non sarà la separazione delle carriere, pur necessaria, a cambiare tutto questo, come non vi sono riusciti i tanti tentativi di spezzare il cortocircuito mediatico-giudiziario. La nostra società, il nostro Paese, la nostra Europa, il nostro Occidente, tutti noi abbiamo bisogno di persone e di ideali profondamente diversi. Alla fine, una questione morale esiste: non quella che agitava Berlinguer, né quella dei Di Pietro e dei Borrelli, ma quella di chi ha abdicato al dovere del giusto, emarginando progressivamente gli appartenenti a quella che Saragat definiva la “milizia austera” che si esercita “non abdicando al dovere di decidere secondo coscienza su ciò che è bene e su ciò che è male”.