di Enzo Maraio
C’è un dato che non può essere ignorato, e che Federico Fubini ha recentemente messo in luce sul Corriere della Sera: in Italia, il divario tra capitale e lavoro continua ad allargarsi. Gli utili delle imprese crescono, ma i salari reali restano fermi — quando non arretrano — erodendo progressivamente il potere d’acquisto delle famiglie. È il segnale di uno squilibrio strutturale che indebolisce non solo l’economia, ma anche la coesione sociale e, con essa, la stessa tenuta democratica del Paese. Su questo terreno, il governo Meloni appare in evidente ritardo. La narrazione della “ripresa” e dell’“Italia che cresce” si infrange contro la realtà di milioni di lavoratori che, pur occupati, non riescono a vivere dignitosamente. La politica economica della destra continua a muoversi dentro schemi vecchi: bonus episodici, mancata riforma fiscale, nessun serio investimento in produttività e innovazione. È una visione miope, che guarda al consenso immediato ma non costruisce futuro. Eppure, invertire la rotta è possibile. Serve un nuovo patto sociale che rimetta al centro la persona che lavora. Non basta chiedere più crescita: bisogna interrogarsi su quale crescita e per chi. Detassare i salari più bassi, premiare le imprese che reinvestono gli utili in innovazione e qualità del lavoro, rilanciare una contrattazione collettiva oggi troppo debole: sono passaggi necessari per restituire equilibrio e dignità al lavoro. Questa è la grande sfida della sinistra riformista. Non può limitarsi a denunciare le diseguaglianze: deve proporre una nuova visione dello sviluppo, capace di unire competitività e giustizia sociale. L’Italia ha bisogno di una forza progressista che parli non solo ai garantiti, ma a quella vasta platea di lavoratori che ogni giorno regge il Paese tra precarietà, salari bassi e mancanza di prospettive. Solo ricostruendo un patto tra impresa e lavoro, tra crescita e redistribuzione, sarà possibile restituire fiducia a chi oggi si sente escluso. Perché un’economia che cresce lasciando indietro chi lavora non è un’economia forte, ma un Paese che si indebolisce.



