di Giada Fazzalari
Quando i due leader si incontrano, succede sempre qualcosa che, in pochi minuti, diventa una notizia che fa il giro del mondo. Il problema, certo non secondario, è che il presidente israeliano Benjamin Netanyahu è il leader più ricevuto alla Casa Bianca da quando il padrone di casa è Donald Trump: in meno di sei mesi sono già tre volte. Il segno che i due hanno tante cose da condividere. Pensavamo che con la clamorosa, quanto incredibile, idea della “riviera di Gaza” – con tanto di deportazione di palestinesi in luoghi non meglio definiti – si fosse in un certo senso toccato il fondo. Ci sbagliavamo. Durante l’ultimo incontro tra i due capi di Stato, che come di consueto non hanno perso tempo nel farsi complimenti a vicenda, ecco che Bibi ha calato l’asso: quando con fare sicuro e cerimoniose lusinghe, ha consegnato la lettera con cui ha candidato Trump all’ambito riconoscimento, il Nobel per la Pace, ecco che subito Trump ha replicato: «Venendo da te, è un gesto importante». Non c’è dubbio. Se anche provassimo a guardare a questo gesto con obiettività e un po’ di sano distacco, ne trarremmo comunque subito la conclusione che, ormai, la questione mediorientale quando si incontrano i due, scivola sempre nel grottesco, rischiando di assomigliare ad uno spettacolo di cattivo gusto. Sarà stato, quello di Netanyahu, un gesto di riconoscenza nei confronti dell’alleato americano che, ai tempi, si era molto speso, con dichiarazioni ai limiti del ridicolo, per chiedere ai tribunali israeliani di cancellare il processo per corruzione a carico di Netanyahu, cosa che detta da un golpista di professione, non è niente male. Se poi pensiamo che la candidatura proviene da un premier su cui pende una richiesta d’arresto della Corte penale internazionale per crimini di guerra, il quadretto è completo. Viene da pensare che i due abbiano usato al tecnica della distrazione generale, su un tema obiettivamente grottesco, per mettere a tacere dissapori e distinzioni che i due leader avrebbero sui due temi sul tavolo: Gaza e Iran. Sul primo, Trump ha fatto sapere che la priorità è la fine della guerra. Parole che ripetutamente vengono pronunciate ma che non hanno trovato riscontro nella realtà. Sul secondo, Trump aveva detto che negoziare un nuovo accordo nucleare non era necessario perché il programma era stato ‘obliterato’. Non è esattamente così, perché i danni sono ingenti ma non definitivi. Trump ci ha abituati ad affermazioni esagerate. Ma quando durante la campagna presidenziale aveva affermato di poter porre fine alla guerra in ventiquattro ore in Ucraina come in Medio Oriente, forse non ci aveva creduto neppure lui. Anche perché, a distanza di mesi, le tensioni internazionali sembrano essersi esacerbate. Ma se ci fosse un Nobel per la guerra, Donald lo vincerebbe di sicuro.