Ma quale egemonia culturale della destra? Il torbido feticcio del Ventennio non funziona più

di Alessandro Silvestri

Nel suo monumentale studio comparativo delle civiltà, “A Study of History”, lo storico britannico Arnold J. Toynbee introdusse il concetto di “minoranze creative” come motore del progresso e dell’innovazione all’interno delle società. Secondo Toynbee, queste minoranze, composte da individui dotati di particolare genio, creatività e spirito d’iniziativa, svolgono un ruolo cruciale nel guidare il cambiamento e nel promuovere l’avanzamento delle civiltà. Restringendo per forza di cose il panorama, vogliamo affrontare qui la questione della più o meno presunta egemonia culturale che la destra meloniana (quella salviniana è fuori concorso) sta tentando con moltissima fatica, impegno e fortune alterne, di costruire in Italia. Lo stesso Msi, vissuto pressoché in isolamento almeno fino alla svolta finiana di Fiuggi, aveva una ristretta pattuglia di pensatori che, consapevoli di appartenere ad un recinto identitario demodé, coltivavano tuttavia la loro particolare solitudine in una cornice di palese autocompiacimento. Ne ricordiamo alcuni come il politologo Marco Tarchi, il giornalista Giano Accame, Armando Plebe, il filosofo ex marxista fondatore della rivista “Cultura di Destra”. Una menzione a parte la meritano Alfredo Cattabiani, che da direttore editoriale della Rusconi spinse per molte pubblicazioni alternative al marxismo “dilagante” (come lui lo definiva) tra le quali la fortunata saga di J.R.R.Tolkien – della quale il melonismo si è ampiamente affigliolato – e personaggi di grande spessore che però o non furono mai fascisti o non lo furono più nel dopoguerra, come Giuseppe Prezzolini, Curzio Malaparte e Giovanni Papini. Ma sostanzialmente dagli anni duemila in avanti, è piuttosto scarso il parterre di personaggi legati a vario titolo al mondo della cultura della destra post o neo-fascista, tanto che si ricorrerà tra i circoli degli “irriducibili” addirittura ad Ezra Pound. Giova ricordare che nel trentennio berlusconiano, quello dove gli ex missini furono al governo per la prima volta dal dopoguerra, la questione della egemonia culturale non si pose proprio. Salvo l’esordio nel 1994 quando il Cavaliere si presentò con alcuni intellettuali pescati nel disfacimento della I Repubblica e li mise nelle liste elettorali della neonata Forza Italia: da Colletti a Pera, da Rebuffa a Vertone, ma che si guardò bene dal coltivare successivamente, pago della “egemonia televisiva” e in seguito mediatica, raggiunte. Mike Bongiorno, le soap opera e le veline, gli erano più che sufficienti per ottenere i maggiori risultati immediati. Un “keynesiano” inconsapevole, padre del populismo italiano, che ha dimostrato di preferire e allevare un popolo di telespettatori, piuttosto che uno di cittadini. Di quella fase non breve, ci vengono in mente giusto poche figure di un certo segno, come Pietrangelo Buttafuoco, Marcello Veneziani, o un borderline come Giordano Bruno Guerri. Venendo all’oggi, escludendo le saghe di Tolkien e la fase Sangiuliano, poi sostituita “magistralmente” da quella di Giuli, riecheggiando forse ancora nell’aire le tesi di Giandomenico Fisichella che sconsigliò a Fini di imitare il modello gramsciano: “la destra non deve dare il via ad una campagna acquisti degli intellettuali”, è finita che di intellettuali veri (organici o meno) i fratelli d’Italia ne siano piuttosto sprovvisti. Ecco che allora, per sopperire a questo deficit, si è investito nella stampa più o meno di partito, dove si è assistito ad una sorta di mutazione genetica piuttosto rapida, dato che direttori e giornalisti hanno indossato lestamente l’uniforme e, comportandosi da federali, rinunciato ad essere dei professionisti dell’informazione. Inutile fare nomi non per timore ma per tedio, tanto sono in giro tutti i giorni per i programmi TV dove espongono le solite tesi prefabbricate, gusto “kiss my ass” e vagamente minatorie. Intendiamoci, non che a sinistra si rida, visto l’ampio ceto di giornalismo populista, manettaro, anti-occidentale e finto-pacifista che circola, compreso filosofi alla frutta come Massimo Cacciari o il geopolitologo Lucio Caracciolo, trasformatisi da tempo in profeti di sventure (soprattutto per chi li legge o ascolta). Una sorta di torbido feticcio quello della egemonia, perché l’egemonia è quella cosa che si vorrebbe imporre noi a scapito di tutti gli altri. Il seme stesso dell’autoritarismo e di ogni giustificazione non solo dei mezzi, ma anche dei fini. Una idea di prevaricazione di origini antiche mutuata da Machiavelli, che è il patrono di tutti gli intellettuali a libro paga della storia. Se il fascismo originale tentò almeno di giustificare la sua esistenza come prosecutore e realizzatore effettivo del Risorgimento, quello posticcio di oggi su cosa si basa? Sul solito nazionalismo, addizionato da egoismo e xenofobia? Su promesse e parole d’ordine dal principio attivo debole ma dal rapido effetto sul ventre molle del populismo? È chiaro che una politica di un qualsiasi Stato poggiata su queste premesse, non possa avere alcun successo. Qui come ovunque e anche oltreoceano. E a proposito del viaggio di Giorgia Meloni a Washington, tra le ragioni che avrebbero consigliato almeno un provvidenziale rinvio, vi è quella di essere il primo leader europeo ad incontrare Trump dopo la faccenda del “baciaculo” e non deve essere una posizione diciamo molto simpatica. Una bottiglia di buon Limoncello avrebbe potuto aiutare. Anche a convincere Trump ad offrire parti meno imbarazzanti del suo corpo. Per i dazi si vedrà. Intanto dalle cancellerie europee si è levato un inno unanime: “Meno male che Giorgia c’è!”.

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