di Giada Fazzalari
C’è una guerra strisciante, subdola, che miete vittime ogni giorno. Invisibile, perché si insidia silenziosamente ovunque, nonostante si imponga con i suoi drammatici numeri. La lista dei morti sul lavoro da gennaio a oggi fa impressione: 880 persone non sono più tornate a casa. Ma, a ben guardare, anche questo numero non ci indigna più. Ci indigna altro: lo scandalo degli audio di Raoul Bova, il caldo torrido, il costo delle vacanze. I morti sul lavoro no, non ci indignano più. Pochi giorni fa due lavoratori sono morti per essere caduti in una fossa biologica a Santa Maria di Sala, Venezia. Avevano 23 e 30 anni; pare lavorassero in nero. Senza tutele, senza garanzie, senza protezione. Non ci siamo indignati, anche se, probabilmente, stavano combattendo una personale – dunque collettiva – guerra del pane. Nello stesso giorno un operaio di 50 anni è morto dopo essere stato risucchiato dagli ingranaggi di un macchinario, nel mantovano. Il suo nome non se lo ricorderà nessuno. Molti considerano inevitabile che la riduzione dei margini nella produzione industriale comporti una diminuzione della sicurezza sul lavoro. In soldoni, che sia inevitabile che quando i margini si contraggono, le aziende, costrette a tagliare i costi, taglino prima di tutto sulla sicurezza dei lavoratori. Del resto, il numero di incidenti sul lavoro aumenta nei periodi di crisi: quando l’economia è in affanno, i primi a saltare sono gli anelli più deboli della catena. La sicurezza costa; se i rapporti di forze sono lasciati a un sistema in cui il vero parametro irrinunciabile è quello del profitto, è fatale che la vita dei lavoratori soccomba all’avidità di ricchezza. Quindi, se è facile dire che per ridurre le vittime del lavoro, occorre abbattere delle violazioni di norme di sicurezza, quello che è più difficile e necessario dire è che occorre un cambio radicale di missione dell’organo di governo della collettività. Se davvero vogliamo realizzare di non essere nemici pregiudiziali della ricchezza, ma decisi a far scomparire la povertà, cioè a realizzare davvero tutto quanto è scritto nella Costituzione sul lavoro, allora dobbiamo dire con chiarezza che la nostra idea di Stato è quella di un potere che frena gli eccessi di egoismo del capitale. Solo quando la legislazione sarà veramente adeguata a questo principio di fondo, a rendere il capitale più umano, le vittime del lavoro diminuiranno veramente. Allora, la politica, se ne occupi davvero. Non confinando il problema in una serie di dichiarazioni intrise di retorica. Non basta la condanna del momento, lo sdegno cavalcato sull’onda dell’emotività. Serve responsabilità collettiva. Perché morire di lavoro non è solo una tragedia personale; ma una vergona per qualsiasi Paese civile.