di Andrea Follini
Pierfrancesco De Robertis, giornalista e scrittore, già direttore del quotidiano fiorentino “La Nazione”, da qualche giorno è in libreria il suo ultimo lavoro letterario, il romanzo “Un amore socialista” (Neri Pozza Editore), dedicato alla vita, al sodalizio politico e personale e alla storia d’amore tra due figure straordinarie del Novecento che meritano di non essere dimenticate: Filippo Turati ed Anna Kuliscioff, della quale quest’anno ricorre il centenario dalla morte. Una storia che ancora oggi ha qualcosa da insegnare e che vale la pena di essere ricordata.
Direttore, ricorre quest’anno il centenario dalla morte di Anna Kuliscioff, che è stata la madre del socialismo riformista italiano. Una donna dalle idee chiare e dalla volontà determinata.
«La madre ed anche il padre, direi. Anna è stata una figura gigantesca. Se non fosse stata una donna, Anna Kuliscioff avrebbe intitolate a sé stessa tutte le strade principali di ogni città italiana. Qui invece a Milano, che è la sua città, c’è una piccola strada di periferia intitolata a lei, mentre a Turati hanno dedicato una delle strade principali accanto a via Manzoni, accanto a piazza Cavour, proprio del centro e la intitolarono subito dopo la sua morte».
Non una questione solo di toponomastica, in somma…
«No, per Anna Kuliscioff si sono dovute attendere le giunte socialiste degli anni Ottanta; un bel po’ dopo insomma, anche come importanza, una stradina spersa nella campagna. Questo per dire il valore del personaggio ma anche un po’ il segno degli stereotipi di tanti nostri modi di ragionare».
Ma chi è stata Anna Kuliscioff?
«Una figura enorme, che ha influenzato il pensiero politico italiano e si è evoluta nel tempo. Perché lei nasce come una rivoluzionaria, non era riformista a vent’anni: aveva partecipato a degli attentati, però ha avuto la grandezza di stare al passo con i tempi e di saper vedere il futuro, che è un po’ il segno che distingue i grandi leader».
Kuliscioff e Turati, un libro dal titolo emblematico: «Un amore socialista»
«È una cosa un po’ diversa dalla solita biografia, anche se romanzata. È la biografia dell’uno e dell’altra, è il segno di un rapporto di grande amore, di grande passione, di grande tenerezza, di grande affetto che è durato più di quarant’anni. Anna e Filippo si conoscono nell’84 a Napoli, lei muore tenendosi per mano con lui nel 1925. Anni vissuti assieme, di battaglie ma anche di grandi e di gravi dissidi politici. Non sono stati sempre d’accordo ma il piano umano, il piano dell’amore è sempre rimasto. Poi il senso del mio romanzo è quello, vorrei e spero, che ci interroghi tutti, cioè quanto il piano personale, dell’affetto e dell’amore con una persona con la quale condividi un’attività, in particolare se pubblica, può arricchire la vita che fai, quanto toglie, quanto dà».
Possiamo dire che loro due, cioè Filippo Turati e Anna Kuliscioff, si completassero l’un l’altro? Non dimentichiamo che, quello a cavallo dei due secoli, era un tempo nel quale alle donne non era concesso di fare proprio tutto.
«No, loro si completavano su tutti gli aspetti, sull’aspetto personale intanto, perché lei era una persona di grande irruenza, di grande intuito, era una persona che “sentiva” la politica e la sentiva più con la pancia che con la testa; era molto intelligente ed aveva un approccio alla politica passionale. Lui invece era molto razionale, borghese, molto moderato nei termini, nei modi, e quindi si completavano davvero l’uno con l’altra».
Quindi genio e regolatezza in qualche modo.
«Lei il genio e lui la regolatezza. Lui la moderava, la indirizzava, però è inutile nascondersi, il lato forte della coppia era lei: lei quella che vede sempre prima di lui quello che accade. Filippo è a Roma, quando viene rapito Matteotti il 10 giugno. E le scrive: “È sparito Giacomo, lo stiamo cercando qui, però una cosa governativa sicuramente non può essere”. Per dire. Lei riusciva sempre a capire le cose prima di lui perché le sentiva, perché era un po’ fuori dallo schema razionale classico che invece era di Turati. Quindi loro si completavano molto, sia sotto l’aspetto appunto personale caratteriale, lei viveva di alti e bassi – di grandi amori, di grandi odi, di grandi momenti di eccitazione, di up and down – e lui invece era sempre quello che stemperava un po’ tutto».
Vivono tra l’altro in un momento storico nel quale la classe operaia scopre la necessità di avere dei diritti e di volerli ottenere. I due però affrontano anche questo contesto con due caratteri diversi.
«Sì, perché lei nasce rivoluzionaria, sia chiaro. Lei era quella che a vent’anni stava nei sotto scala di Lugano, di Zurigo, a progettare attentati. Ci dicono i biografi che la prima parte della vita di Anna non è del tutto chiara; però obiettivamente partecipò alla lotta armata nella primissima fase della sua vita, quando conosce Andrea Costa. Invece Turati era figlio di un Prefetto, era un uomo d’ordine, era uno che aborriva la violenza, qualsiasi tipo di violenza. Un approccio completamente diverso dei due al momento storico, insomma».
Ma con un passaggio chiaro di Anna dalle teorie rivoluzionarie al riformismo democratico.
«Anna vive già da subito questo passaggio dall’inconcludenza della lotta armata alla necessità di una lotta politica, però in ogni caso lei nasce in quell’ambiente lì, un ambiente rivoluzionario. Quando lei sta in Russia era quel mondo della lotta armata, non bisogna vergognarsi di ricordarlo».
Una Eduard Bernstein sul campo italiano, potremmo dire?
«Sì, esatto. Lei vive questo passaggio verso un socialismo rifomista e democratico, si evolve e questa è la grandezza del personaggio di Anna. Grazie anche a Filippo probabilmente, che in questo riesce a moderarla».
Nel suo romanzo, la storia dei due protagonisti si intreccia con la tragedia dell’assassinio di Matteotti. Come vivono i due quei giorni?
«Per loro è stata la tragedia definitiva. Infatti questo contesto ha permesso a me anche di rendere la trama del romanzo un po’ in crescendo. Avevano con Matteotti un rapporto molto intimo; Anna lo considerava sostanzialmente un figlio. Matteotti andava spesso a trovarla a Milano perché Velia, la moglie di Giacomo, aveva le sorelle che abitavano lì e un fratello che era un baritono famosissimo, Titta Ruffo, che era spesso alla Scala. Quindi Matteotti in Portici Galleria era di casa e loro vivono in maniera devastante tutto quello che accade. Tant’è che lei già stava male, però poco dopo Matteotti muore anche lei, perché talmente stravolta da questa vicenda. E lui lo stesso. Io ho dedicato gli ultimi due capitoli del romanzo proprio a questa vicenda perché l’ho ritenuta molto importante anche nel loro rapporto e lui ne viene ugualmente devastato. Dal dispiacere ma anche dal senso di colpa, che dalle sue lettere traspare».
Di cosa si crucciava Turati?
«Il suo grande dramma era di non aver capito quello che stava succedendo. Io mi sono inventato un dialogo tra loro in cui lui dice: “Io basta, smetto, non voglio più saperne della politica e lei dice ma perché? Perché io da questa vicenda ne esco perso. Prima cosa, hanno preso lui e non me e questo è un atto d’accusa a me perché l’hanno ritenuto più bravo di me, più insidioso di me”. E poi la cosa fondamentale è il suo devastante senso di colpa. Lui dice “Io non mi sono accorto che lo avevano già messo nel mirino, io ce l’avevo ad un metro, me l’hanno ammazzato sotto gli occhi sto ragazzo. Bastava che io gli mettessi due dei miei di scorta e non succedeva niente. L’hanno rapito alle quattro di pomeriggio per strada, bastava che ci fossero due o tre dei nostri e sarebbe stato protetto”. Quindi lui viene devastato da questo rimorso, e questo nelle lettere un po’ traspare. Io l’ho reso ancora più drammatico, un po’ di senso scenico, però insomma quest’elemento c’è in Turati».
Quindi Anna e Filippo, uniti anche nel dramma.
«Loro vivono in maniera devastante questa vicenda, lei per il dramma di questo ragazzo che viene ammazzato e perché poi con Velia i rapporti dei due vanno un po’ in crisi. È una situazione che mi ha ricordato un po’ la vicenda di Aldo Moro; l’infrangersi del rapporto tra la famiglia di Moro e gli altri democristiani: la famiglia tende a incolpare gli altri perché non ne hanno impedito l’assassinio, non lo avevano protetto. Quando Matteotti viene rapito e poi assassinato, Velia ed i suoi parenti hanno un po’ di dissapori con gli altri socialisti. Turati scrive ad Anna che quando dopo il rapimento va a trovare Velia, la vede un po’ fredda e “il cognato mi ha un po’ congedato”: si scava un fossato tra la famiglia Matteotti e gli altri socialisti. Comprensibile».
Proviamo direttore a fare un parallelismo: Anna Kuliscioff potrebbe essere ancora un modello, per i giovani e specie le donne, dei giorni nostri?
«È una figura talmente grande che è un modello per tutti perché è una persona per tutti, per tutte, perché è una donna che ha visto prima di tutti gli altri le battaglie che ad esempio dovevano essere fatte per la difesa delle donne. Lei è rimasta nota per questo. Lei fa una conferenza famosissima al circolo filologico milanese nel 1890 in cui dice che le donne devono guadagnare come l’uomo, perché se questo non accade, la donna è schiava in famiglia come in fabbrica. E ancora che la donna che non lavora è una donna che diventa schiava, quindi è importantissimo che le donne lavorino perché è solo l’indipendenza economica che dà la libertà personale alle donne. Sono discorsi che sembrano fatti adesso e addirittura in molti casi le cose che chiedeva centoquaranta anni fa non sono ancora parte del dibattito politico, quindi è sicuramente un modello. Quando lei si batte per il suffragio, lei lo chiamava veramente universale, perché si arrabbiava quando gli altri dicevano che il suffragio universale era da intendersi solo quello maschile. Fa battaglie che guardano avanti in Italia di molti anni».
Anche una battaglia contro il suo partito…
«Si, arriva alla frattura politica grave con lo stesso Turati nel 1910, una frattura pubblica. Loro scrissero insieme un libello che fu pubblicato col titolo “La polemica in famiglia” in cui ognuno combatteva l’altro, sul tema del voto alle donne. Lei ovviamente si era battuta strenuamente; lui non voleva, perché i socialisti non volevano il voto alle donne, perché dicevano che se le donne avessero votato, in quanto nella maggioranza succubi dei preti e dei confessionali, sarebbero state indirizzate non verso un voto socialista, quindi si sarebbe consegnata l’Italia ai preti. Quindi Anna si infuria a tal punto da chiedere, o meglio da obbligare Turati a scrivere questo libretto insieme, un libro da pubblicare, da vendere in edicola accanto a Critica Sociale, nel quale lei si dissociava pubblicamente dalle posizioni del Psi “perché – lei scriveva – fino ad adesso, le nostre posizioni, le nostre battaglie sono stati comuni, ma io non voglio associare il mio nome a questa vostra porcata che fate”. Immaginiamoci la forza di tutto questo, cioè di una donna che per la società di allora non aveva nemmeno diritti, e nonostante tutto riesce a fare una cosa di questo tipo. Per dire la forza di questo gesto. Dà molto l’idea di com’era la donna Anna Kuliscioff».
Questo atteggiamento ci dà anche la fotografia di un modo di vivere la politica, che appare molto diverso da oggi.
«Come anche quelli dopo di loro, gente che sulla politica aveva investito tutto, anche la propria vita; questi di cui parliamo erano personaggi disposti a mettere sul piatto tutto, l’onore, la vita, la reputazione. Non c’era un via di mezzo, non c’era il calcolo del seggio, dello stipendio come si fa adesso. Si giocava sempre tutto per tutto. C’era un senso diverso della storia».



