Intervista a Gad Lerner: «La pace dei ricchi non si può fare, solo un radicale ricambio delle leadership può riaprire il dialogo»

di Giada Fazzalari

Non si è mai lasciato incasellare in nessuna trincea e dunque pochi altri come Gad Lerner possono parlare dell’eterno conflitto nel Medio Oriente con il necessario spirito critico. Nato a Beirut nel 1954, scrittore, giornalista del Manifesto, dell’Espresso, della Stampa, negli anni ’90 animò su Rai 3 talk show assai meno scontati di quelli attuali. Nel 2000 lo chiamano alla direzione del TG1 e l’anno successivo diventa il primo direttore del Tg de La7. Con Gad Lerner, in questa intervista all’Avanti! della domenica, parliamo di tutti i passaggi più dolenti dell’ennesima crisi israelo-palestinese, analizzandone le motivazioni (che arrivano da lontano) e le implicazioni politiche e geopolitiche.

Si sostiene da più parti che Israele abbia diritto a difendersi restando nei limiti del diritto internazionale e umanitario. A tuo avviso è possibile?

<<E’ molto difficile. Da una parte si tratta di un’ovvietà: quando subisci un’invasione feroce e un massacro di civili, è ovvio che non si può mettere in discussione il diritto alla difesa. Quello che in queste tre settimane abbiamo constatato è che per mantenere dentro i limiti del diritto internazionale il diritto alla difesa, una reazione proporzionata è maledettamente difficile, specie quando il tuo avversario si annida in una popolazione di oltre 2 milioni di abitanti, in una zona così densamente popolata come la Striscia di Gaza. Dietro c’è una maledizione, che è un’inadempienza lunga 56 anni>>.

In una condizione umanitaria già drammatica, esiste il rischio di un’escalation che coinvolga altri territori e Paesi?

<<Quello che purtroppo la storia ci insegna è che nessuna guerra segue il percorso pianificato da chi l’ha programmata. Questa guerra nasce da un imprevisto, qualcosa che era considerato impensabile. Chi sta reagendo, cioè il governo di Israele, ripete dal primo giorno che sarà una guerra lunga. Mi pare che nei giorni scorsi un ministro si sia anche azzardato a dire che passeranno anche due o tre mesi e rispetto alla tempistica dei conflitti mediorientali, questo è davvero un tempo lunghissimo. Nessuna guerra, tranne la guerra di Indipendenza del 1948, è durata per mesi>>.

C’è però un atteggiamento prudente da parte di Israele?

<<Dietro a questa prudenza e a questo attendismo, lo abbiamo visto anche a proposito dell’annunciatissima offensiva di terra a Gaza City, c’è la assoluta assenza di un piano. E’ molto antica e radicata nella destra israeliana l’idea (che risale a Jabotinsky, proseguita in Begin, Shamir e Sharon prima di arrivare a Netanyahu) che l’arabo – il palestinese non lo prendono in considerazione – è un nemico irriducibile con il quale non si potrà mai arrivare ad un accordo e quindi l’unica soluzione – Jabotinsky la chiamava “la barriera di ferro” – era quella di tenerlo a bada, di sottometterlo in nome di una assoluta superiorità militare, tecnologica ed economica. E quindi il piano era quello di fare in modo che la questione palestinese sparisse dalle agende della diplomazia internazionale e tirare avanti così. Il ragionamento era: passeranno gli anni e loro staranno sempre lì che ci odiano, che vogliono distruggerci, ma saranno sempre sottomessi. In questi giorni sembra essere saltata questa idea, che era, ripeto, della destra israeliana, ma che aveva anche dentro il vecchio partito laburista israeliano. Alcuni sotto sotto la pensavano allo stesso modo>>.

Sei d’accordo con chi dice che Netanyahu porti una buona quota di responsabilità in questa guerra? E che una delle ragioni sia quella di avere espunto la “questione palestinese” dall’agenda? 

<<Intanto distinguerei: Netanyahu è ormai un leader screditato, perfino nel suo elettorato di destra è da tempo riconosciuta la strumentalità con cui è rimasto aggrappato al potere per evitare i processi per corruzione, la spregiudicatezza con cui si è alleato con forze razziste e fasciste e messianiche con le quali fino all’ultimo giorno della campagna elettorale aveva giurato che non si sarebbe mai alleato. Il discredito di Netanyahu è esploso e oggi è un leader che se va in giro in visita alle città israeliane viene accolto da fischi dalla gente della strada. Ma la rimozione della questione palestinese, l’illusione di poterla nascondere sotto il tappeto e vivere bene anche se i tuoi vicini stanno molto male, purtroppo è assai più generalizzata>>.

In sostanza non se ne è occupata neppure la sinistra democratica israeliana?

<<Io ho partecipato ad alcune manifestazioni a Tel Aviv del sabato sera, organizzate dal movimento di protesta contro la svolta autoritaria. Hanno unito, in un moto di popolo straordinario, larghi settori del paese ma senza mai però porre al centro la questione del destino dei palestinesi, come se fosse una cosa che avrebbe diviso il movimento e che quindi era meglio accantonare. Da una ventina di anni ormai nelle campagne elettorali israeliane non è mai stata al centro la questione della soluzione. Anche il partito laburista, o il Meretz, che è un partito alla sua sinistra, si presentano agli elettori agitando questioni sociali, le disuguaglianze, la laicità dello Stato, ma da tempo non sfiorano la questione palestinese>>.

E ora è cambiato qualcosa?

<<Credo che dal 7 ottobre del 2023 in avanti tale questione, nella maniera peggiore cioè attraverso l’azione di criminali, sia tornata all’ordine del giorno, anche perché in qualche modo rende molto più arduo stipulare quella che David Grossman ha chiamato “la pace dei ricchi”, cioè l’accordo tra lo Stato di Israele e le petromonarchie del Golfo, regimi autoritari e reazionari come gli Emirati Arabi, l’Oman e da ultimo stava per essere della partita anche l’Arabia Saudita. L’idea che ti metti d’accordo con i regimi spesso sanguinari e integralisti e grazie a questo accordo, che è la pace dei ricchi appunto, puoi accantonare la questione palestinese, si rivela inattuabile>>.

E’ ancora possibile a tuo avviso quel processo di pace intrapreso da Rabin e Arafat, poi interrotto? Da più parti oggi viene richiamata l’esigenza dei due popoli- due Stati come risoluzione del conflitto. E’ un’utopia, essendo cambiato il mondo e anche la geopolitica?

<<Penso che a volte le utopie siano le uniche soluzioni ragionevoli, che quando precipiti in una guerra che non è solo feroce, che non provoca solo migliaia di morti, ma che appare anche senza sbocchi, quello è il momento in cui torna ad essere necessaria sui due fronti una leadership alternativa. Ho visto con piacere che Lapid, il leader del partito di centrosinistra israeliano, non ha accettato di entrare nel governo di unità nazionale propostogli da Netanyahu. Ci sono entrati i portavoce dell’esercito ed è naturale che questi facciano parte del gabinetto di guerra, tanto più dopo che Netanyahu ha dimostrato la sua totale inadeguatezza. Ma non ci è entrato chi un domani potrebbe riallacciare un dialogo con una componente palestinese che non può certo essere Hamas>>.

Qual è il rapporto storico tra la sinistra e Israele?

<<È difficile chiederlo a un ebreo di sinistra che ha vissuto come ho vissuto io, con l’ammirazione per il modello socialista, per i kibbutz, per la sobrietà dello stile di vita di Ben Gurion, di Golda Meir… Chi ricorda, parlando con l’Avanti, le fotografie di Pietro Nenni che con la vanga scava nel deserto per contribuire a renderlo un giardino… quindi il sionismo visto come una forma di collettivismo sociale, aperta anche al dialogo con gli arabi. Nella dichiarazione di indipendenza dello strato di Israele del 1948 è detto a chiare lettere che questo è un Paese in cui tutti i cittadini hanno pari diritti a prescindere dalla loro religione, dalla loro lingua e dalle loro origini. Poi però sappiamo bene come da una parte l’appoggio dell’Unione Sovietica, e quindi dei partiti comunisti e del mondo arabo ha portato a un cambio di scena, ad una ostilità culturale nei confronti di Israele. Oggi è orribile per me vedere delinearsi un patto d’acciaio tra l’establishment israeliano e le destre europee: rimuovendo completamente le proprie colpe storiche nei confronti degli ebrei, ammirano dello stato di Israele la durezza, la sopraffazione nei confronti dei palestinesi e la legano al proprio modello. Alla destra israeliana fa comodo perdonare Almirante a Giorgia Meloni, far finta che non esista questa continuità che è testimoniata dal fatto che nelle città italiane Meloni e il suo partito vogliono intitolare delle piazze, delle vie, al segretario di redazione de “La difesa della razza”. Gli fa comodo perché la coda di paglia della destra italiana ed europea consente ad Israele di avere dei docili alleati. Anche questo, però, mi sembra andare in crisi dopo il 7 ottobre perché sono talmente scomposti gli equilibri internazionali, tale è la preoccupazione di una escalation e di un allargamento del conflitto, che i ripetuti inviti, partiti da Washington ma fatti propri dall’Unione Europea, alla moderazione nei confronti di Israele, in qualche modo attenuano anche questo>>.

Come hai giudicato il messaggio che Giorgia Meloni ha inviato il 16 ottobre scorso alla comunità ebraica?

<<Giorgia Meloni il 16 ottobre dell’anno scorso, facendo violenza a se stessa, è riuscita a dire la parola ‘nazifascista’ riferita al rastrellamento del ghetto di Roma. Dodici giorni dopo, nel centenario della marcia su Roma, non ha proferito neanche una parola, non ha fatto neanche un bilancio storico. C’è una reticenza furba e un coltivare la smemoratezza che io trovo scandalose>>.

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