Il governo della paura non vuole affrontare il dramma delle carceri

di Marco Di Nicolò

Un paio di mesi fa il Ministro della Giustizia Nordio ha dichiarato che il sovraffollamento carcerario dipende dai giudici che imprigionano troppo e non dalle leggi approvate dal governo Meloni. Questa affermazione rivela quanto il populismo penale condizioni il dibattito pubblico e quanto poco contribuisca a risolvere i problemi reali: né in termini di sicurezza né in termini di rispetto dei diritti fondamentali. Il diritto penale viene impiegato come strumento di propaganda. Alimentare la paura, proporre soluzioni semplicistiche e punitive, serve solo a costruire consenso, non Giustizia. Il governo Meloni ha fatto proprio questo meccanismo, già ampiamente consolidato nel passato. Lo schema è semplice. In primis, si conquista il consenso di massa tramite politiche securitarie. La percezione dell’insicurezza è una costruzione sociale fondamentale per giustificare l’approvazione di misure illiberali. La realtà del Paese è ben diversa: l’Italia è uno dei Paesi più sicuri dell’Unione europea. I dati raccolti dal Ministero dell’Interno sono chiarissimi. Poi si utilizza il tendenziale colpevolismo dell’opinione pubblica. Le garanzie non fanno parte della cultura di massa e gli indagati/imputati non si presumono innocenti, ma colpevoli, spettacolarizzando il processo penale. In ultimo, considerata la crisi di identità politica che ristagna dentro a contenitori politici informi, si intercetta la necessità dell’elettorato di definirsi sulla base dei propri nemici, spesso del tutto immaginari. Tutti i populismi hanno bisogno di legittimarsi attraverso un nemico o, meglio, attraverso più nemici. L’odio funge da aggregatore politico. Contestualmente il tasso di sovraffollamento nelle carceri è aumentato dal 109% nel 2022 al 133% nel 2025: si è passati da 56.196 detenuti a 62.445. Un incremento che non è giustificato dall’andamento dei reati, rimasti stabili nel triennio. A risultare maggiormente colpiti sono stati i migranti e i minori. I minori detenuti sono aumentati del 60% in soli diciotto mesi dall’approvazione del Decreto Caivano. Gli ingressi negli istituti penitenziari minorili hanno coinvolto soprattutto ragazzi stranieri non accompagnati. Anche i migranti irregolari in carcere sono aumentati, dopo l’approvazione della legge 50/2023 (decreto Cutro). Queste norme, insieme al pacchetto sicurezza del 2025 e alla legge sull’autonomia differenziata, hanno prodotto un impatto diretto e indiretto sulla popolazione carceraria: da un lato inasprendo pene e limitando le alternative alla detenzione, dall’altro riducendo le risorse per percorsi di reinserimento extra-carcerari. È ormai certo che la sicurezza e la giustizia sociale non si perseguono con il carcere e con la repressione. I dati dicono esattamente il contrario: le misure alternative alla detenzione (affidamento in prova, lavori di pubblica utilità, detenzione domiciliare) determinano un tasso di recidiva inferiore al 20%, contro un tasso di recidiva che supera il 68% per chi sconta la pena in carcere. Purtroppo vi è di più. Il circuito della detenzione in carcere e il sistema dell’esecuzione penale esterna si configurano come sistemi indipendenti l’uno dall’altro e, di fatto, riguardano tipologie e caratteristiche di persone diverse tra loro. Secondo il Rapporto Antigone 2024 e dati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, la grande maggioranza dei detenuti proviene da contesti di marginalità sociale ed economica. Circa il 75% non ha un impiego stabile al momento dell’arresto. Molti non hanno una residenza fissa e dipendono dall’assistenza pubblica o familiare. Il Garante nazionale dei detenuti stima che oltre il 40% dei detenuti presenti disturbi psichiatrici, spesso non diagnosticati o mal gestiti. Le persone transgender subiscono una doppia vulnerabilità: vengono frequentemente inserite in istituti non conformi alla loro identità di genere e subiscono più episodi di isolamento, discriminazione e violenza. Le linee guida del Dap prevedono tutela, ma non sono uniformemente applicate. Le persone che accedono alle misure alternative alla detenzione hanno un profilo diverso in termini di integrazione sociale e di stabilità economica. Del resto, il populismo penale si nutre della spettacolarizzazione del processo, del sospetto verso le garanzie, dell’illusione punitiva. Facciamo alcuni esempi: il nuovo art. 633-bis c.p., introdotto con la legge 199/2022 (“anti-rave”) approvata a seguito di una serie di eventi di cronaca, ha prodotto molti fermi preventivi nei primi dodici mesi e pochissime condanne. La legge n. 50/2023, approvata dopo la tragedia di Cutro ove persero la vita novanta migranti, ha aumentato inutilmente le pene, già decisamente alte, per favoreggiamento dell’immigrazione e posto nuovi ostacoli alla protezione speciale. Tale misura ha determinato un considerevole aumento degli stranieri e migranti in carcere soprattutto per i reati minori e meno gravi. Infine, ci sarebbero la Legge 80/2025 (conversione DL 48/2025 “Pacchetto Sicurezza”) e la legge 86 del 26 giugno 2024 sull’autonomia differenziata. La prima misura introduce quattordici nuovi reati (resistenza passiva, blocchi stradali, occupazioni), esclude le misure alternative alla detenzione per molte fattispecie e irrigidisce l’ordinamento penitenziario, colpendo ancora una volta le persone più fragili. Rispetto a questa deriva illiberale, esistono ancora anticorpi democratici? Si, sono la cultura delle garanzie, l’identità politica non subalterna all’emotività, la competenza e i principi sanciti dalla nostra Costituzione.

Ti potrebbero interessare