IL CIMITERO DEI VIVI

di Giada Fazzalari

Quale moto dell’anima si scateni nel contemplare la disperazione e l’abisso di dolore di cui sono intrise le carceri italiane, che a centovent’anni di distanza sono ancora “il cimitero dei vivi” descritto da Turati, è ciò che definisce l’animo delle persone: da una parte chi prova compassione, dall’altro chi gode della sofferenza dei detenuti, come il sottosegretario Delmastro. La mancanza di pudore con cui mesi fa ha esternato il suo compiacimento per il dolore dei detenuti, certamente reprobi ma pur sempre umani, definisce un carattere dominante del governo a cui appartiene: impresari dell’odio e della paura, impegnati a mantenere il consenso alimentando ansia e additando nemici. Le nostre galere, i nostri cimiteri dei vivi, sono sempre più fatiscenti e sempre più affollati; mentre il governo non solo non recuperava una sola cella in più (come pure aveva promesso di fare) ma non impediva che il degrado continuasse a ridurre gli spazi agibili negli istituti di pena, il numero dei detenuti, per effetto di una politica repressiva e forcaiola, ha continuato a crescere, e così nell’anno passato dalla crisi estiva del 2024 la situazione, che pareva impossibile da peggiorare, è invece ancora sfuggita. L’esecuzione delle pene detentive non può approssimarsi a una specie di sterminio, certamente morale ma, considerando il numero dei morti di galera, per troppi anche fisico. Se siamo ancora figli della cultura cristiana che ha fatto dell’Italia e dell’Europa il centro del mondo, a questo dobbiamo tutti ribellarci. Scacciare la cattiveria e ritrovare il balsamo della fratellanza, senza il quale qualsiasi comunità è condannata. E così assistiamo, nelle celle, all’orrore della cattività. Alla povertà, alla malattia mentale, a pareti ammuffite, caldo asfissiante, malattie infettive che dilagano, parassiti e topi ovunque, suicidi annunciati che nel 2024 hanno visto celebrare il record negli ultimi trent’anni con 91 suicidi. Condizioni che non tengono fede al dettato costituzionale che all’art 27 parla di umanità della pena. Il carcere non può essere la risposta automatica a ogni reato ed è arrivato il momento di rilanciare con convinzione l’uso delle pene alternative: non un “liberi tutti”, ma un ragionevole meccanismo di riabilitazione del carcerato. Considerando che, per garantire il rispetto delle persone detenute, bisogna andare oltre le contese ideologiche e fare un patto di umanità condiviso da tutte le forze politiche. Del resto, per quanto siano gravi le colpe di chi vive, o muore, in condizioni non dignitose per un Paese civile, una redenzione c’è per tutti.

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