Emergenza carceri, ora pene meno repressive e più rieducative

di Lorenzo Cinquepalmi

Una nuova concezione della pena per chi commette reati deve privilegiarne funzione rieducativa e di reinserimento sociale rispetto alla mera afflizione. È una visione che trova fondamento nell’articolo 27 della Costituzione italiana e mira a fare della pena uno strumento di responsabilizzazione del condannato, con l’obiettivo di reinserirlo nella società. La concezione tradizionale della pena, incentrata sull’afflizione, va superata per dare spazio a un approccio più moderno e umano, che considera la pena come un’occasione per il condannato di meditare sul suo comportamento e prendere coscienza delle conseguenze del reato commesso. Non più una punizione fine a sé stessa, ma un percorso di crescita e cambiamento, che riduce la recidiva e aumenta la sicurezza sociale. Quello della riduzione della recidiva è il tema centrale di una nuova idea di pena, e deve costituire la chiave per superare le resistenze legate alla difficoltà di liberarsi del feticcio dei suoi contenuti afflittivi, del retaggio biblico del “occhio per occhio”, della vendetta delegata allo Stato. Infatti, sul piano meramente utilitaristico, una riduzione della recidiva si traduce in una riduzione importante di una serie di costi, economici e sociali, generati dalla commissione di reati, dalla conseguente repressione degli stessi, dalla celebrazione dei processi e dall’esecuzione delle pene detentive. L’effetto della recidiva, ovvero della progressiva trasformazione in macchine da reato, attraverso l’esperienza del carcere, delle persone che cadono nel delitto, va visto prima di tutto con gli occhi delle vittime del reato, a cui, invece di proporre la vendetta di stato, si deve proporre un futuro con meno reati, ottenuto invertendo il circolo vizioso attraverso il quale chi entra in galera si laurea delinquente a vita. La centralità del tema della recidiva era stato colto già dal Matteotti giurista, autore di un saggio proprio su questo argomento in cui sosteneva che per contrastarla occorre ridurre all’effettivo indispensabile il ricorso alle pene carcerarie, essendo sufficienti, per conciliare sicurezza pubblica e finalità rieducative, altre pene come la detenzione domiciliare, le sanzioni interdittive, le condanne condizionali: pene, cioè, che mirano ad evitare gli effetti controproducenti, ben noti, della detenzione in carcere. Il sistema italiano attuale è, invece, dominato da sproporzione e incoerenza la cui esistenza dipende dell’incapacità politica di superare l’istinto popolare verso l’occhio per occhio. In concreto, è garantito l’accesso a misure alternative di bassa afflittività, come l’affidamento in prova ai servizi sociali, in caso di condanne fino a quattro anni di detenzione, mentre la detenzione domiciliare, francamente una sanzione ben più afflittiva, è accessibile solo per condanne fino a due anni di detenzione. Logica vorrebbe che, se un condannato a quattro anni di detenzione può scontare la pena in affidamento, quindi pressoché libero, la detenzione domiciliare dovrebbe poter essere applicata in caso di condanne a pene più elevate e non, com’è ora, della metà. Eppure, è un dato oggettivo che tanto maggiore è il ricorso alle alternative al carcere, tanto minore è il tasso di recidiva: i recidivi, tra coloro che scontano una condanna fuori dalla galera, sono fino a trenta volte di meno. Resta dunque da chiedersi se la componente retributiva della pena, cioè quel tanto di sofferenza subita che corrisponde alla sofferenza inflitta, sia da superare completamente. Evidentemente no: un che si sofferenza ha un ruolo essenziale anche nella prospettiva del reinserimento. La compressione della libertà deve concorrere con la revisione del proprio errore nella realizzazione del progetto di recupero. Ed è indubbio che i vincoli imposti agli affidati in prova o, maggiormente, ai detenuti domiciliari, premano sulla coscienza e sull’individualità del condannato in modo da esaltare, nel confronto, l’effetto riabilitativo degli strumenti di reinserimento: il lavoro, le attività riparative, le relazioni familiari e umane in generale. Ecco perché ciò che la politica deve veramente fare,  se davvero vuole ridurre significativamente i reati e i costi sociali degli stessi, non è aumentare il numero dei reati o l’entità delle pene; non è sbandierare il dolore dei condannati; non è premere sul pedale della repressione; ciò che la politica dovrebbe fare è ampliare significativamente gli ambiti di esecuzione delle pene fuori dal carcere, riducendo la carcerazione ai soli casi di insuperabile pericolosità per l’incolumità dei cittadini, desunta dalla natura violenta dei reati commessi e dalla gravità degli stessi, determinata in base all’entità della pena inflitta. Senza questo cambio epocale di visione, la lotta alla recidiva resta nominale, il sovraffollamento carcerario resta irrimediabile, l’inciviltà e l’abbruttimento restano dominanti.

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