Dazi, ora un patto per reindustrializzare l’Occidente

di Stefano Amoroso

Dopo i giorni del terrore iniziati con l’annuncio di pesanti dazi contro sessanta tra Paesi ed entità sovranazionali come la Ue arriva la tregua pasquale e, con essa, la trattativa per superare i dazi tra Ue ed altri Paesi europei da un lato, e Stati Uniti dall’altro. Lo scorso 2 aprile, durante l’inquietante spettacolo messo in piedi nel giardino della Casa Bianca dal Presidente Trump, tra cartelli che riportavano cifre del tutto inventate ed un operaio che ballava sul palco, il Presidente della prima e più antica democrazia del mondo moderno annunciava trionfante il “giorno della liberazione” del suo Paese. Il caos che è seguito sui mercati, le proteste di industriali e finanzieri statunitensi e, soprattutto, l’ondata di vendite dei titoli di debito del Tesoro a stelle e strisce, hanno convinto Trump a desistere dai suoi propositi distruttivi. È troppo presto, tuttavia, per annunciare che Nerone si è trasformato in Augusto. Non c’è dubbio che l’opzione di avere zero dazi tra le due sponde dell’Atlantico creerebbe un mercato dal potenziale enorme, che metterebbe insieme molte delle principali economie del mondo, cinque membri su sette del G7, che potrebbero diventare sei se il Regno Unito riuscisse ad inserirsi nell’accordo, ed avrebbe tutte le carte in regola per guidare il mondo ancora a lungo. Tuttavia, restano diversi nodi da sciogliere. In primo luogo, la postura da tenere nei confronti di Cina ed India, i due colossi asiatici, che prossimamente saranno la prima e la terza economia del mondo, e che messi insieme hanno quasi 2,9 miliardi di abitanti. Vale a dire quasi il 35% dell’umanità. Come si può pensare di chiuderli in un recinto ed escluderli da ogni accordo? Non si rischia di gettare Nuova Delhi tra le braccia della potenza cinese? E poi va definito il ruolo degli storici alleati extra occidentali dell’Occidente: dal Messico al Giappone, dalla Corea del Sud alla Turchia ed all’Australia, non sono pochi i Paesi nei quali le nostre imprese hanno investito molto, e che sono inseriti in maniera determinante nelle catene del valore occidentale. Se si allarga troppo, tuttavia, l’Occidente è destinato a perdere le sue specificità, a diventare vulnerabile e ad accelerare ancor di più il processo di desertificazione industriale in atto. Infatti, per l’operaio occidentale, la tragica realtà con cui si trova a dover fare i conti tutti i giorni è la chiusura degli stabilimenti nei nostri Paesi e l’apertura di nuovi impianti in Polonia, Serbia, Messico o Cile. E tutto questo perché esistono non solo degli evidenti e grandi squilibri nei costi del lavoro anche tra Paesi vicini e talvolta confinanti, ma anche vistose differenze nel peso della burocrazia, delle imposte e delle normative ambientali e sanitarie. Non è un caso che il Partito Socialista Europeo, negli anni passati, sia stato sollecitato da più parti ad ampliare la sua proposta politica, rispetto alle tradizionali regolamentazioni e le politiche industriali attive, composte d’investimenti pubblici, sostegno alla ricerca, formazione e riqualificazione della forza lavoro. Queste politiche oggi non bastano più a fermare la deindustrializzazione dell’Occidente: al massimo la rallentano per un po’. Pertanto, sarebbe opportuno adottare degli standard ambientali e sociali vincolanti, introducendo dei requisiti ambientali e sociali minimi nei trattati commerciali e penalizzando i Paesi che competono al ribasso. Non sarebbe affatto male, poi, l’introduzione di una tassa sul carbonio alle frontiere per le importazioni da Paesi con standard ambientali meno severi dei nostri. Inoltre, va sostenuta in maniera lungimirante la filiera locale ed il “reshoring” delle multinazionali che hanno delocalizzato in Paesi in via di sviluppo. È a seguito di queste politiche, per esempio, che il colosso statunitense dei microchip, Nvidia, ha annunciato di chiudere alcuni stabilimenti aperti all’estero e reinvestire negli Stati Uniti dopo almeno vent’anni di politiche opposte. Ed è sempre per lo stesso motivo, e non per i dazi, che i colossi taiwanesi dell’elettronica stanno investendo miliardi sul mercato americano, uscendo da Paesi come la Cina e l’Indonesia. Infine, ma non meno importante, i Paesi occidentali possono agire sulla leva degli appalti pubblici strategici per favorire prodotti e tecnologie nazionali o transnazionali (ma all’interno dell’Occidente), compatibilmente con le regole del WTO. Insomma, le leve a disposizione dell’Occidente sono molte e valide, se gestite con intelligenza e soprattutto restando tutti uniti. Sono assolutamente da evitare misure draconiane come i dazi o come le limitazioni ai movimenti dei capitali, che ci farebbero tornare indietro di almeno settant’anni. Ed è vitale che, a cominciare dall’Europa, cominciamo a pensarci come parte di una comunità più grande fondata sui valori comuni ad entrambe le sponde dell’Atlantico. Di fronte alle sfide globali perfino l’Europa o gli Stati Uniti, da soli, hanno poche possibilità di cavarsela. Figuriamoci la piccola Italia.

 

 

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