di Francesco Di Lorenzi
Chi conosce la storia di questo giornale sa bene che non siamo mai stati particolarmente teneri verso Massimo D’Alema e la sua storia, avendo rappresentato per anni una cultura politica che, nel migliore dei casi, possiamo definire radicalmente antisocialista, disposta ad usare qualsiasi mezzo, compreso quello giudiziario, per colpire e marginalizzare una presenza ritenuta un intralcio sulla strada della trasformazione politica del Pci post caduta del muro di Berlino. Tuttavia siamo, da sempre, allergici al “tutti contro uno”, ai tritacarne mediatici, in particolare se ciò avviene sul piano delle idee e del confronto democratico; per questo non ci uniamo al tiro incrociato che lo ha colpito nell’ultima settimana, a seguito della sua partecipazione alla parata di Pechino, nell’ottantesimo anniversario della fine della seconda guerra mondiale e della vittoria cinese sul Giappone. Sgomberiamo subito il campo dai dubbi e diciamo con chiarezza che è del tutto legittimo storcere il naso per la presenza fisica (con tanto di foto ricordo tra i principali invitati) di un ex premier in un Paese che è tutto fuorché un faro di democrazia e di socialismo democratico e che annovera tra i suoi più stretti alleati dittatori ed autocrati di ogni parte del mondo. Ma qui siamo sul piano della forma, dell’opportunità politica e non su quello, ben più importante, della sostanza del problema, cosa che, secondo noi, l’ex leader maximo ha compreso perfettamente. Nell’intervista concessa a Fabio Martini sulla Stampa ha infatti commentato con queste interessanti parole le feroci polemiche che lo hanno investito: “Goldman Sachs ci ha spiegato che da qui a non molti anni la Cina avrà il primo pil del mondo, l’India il secondo, gli Stati Uniti il terzo e l’Indonesia il quarto. Poi ci saranno il Pakistan, il Brasile, la Nigeria, tutta gente che stava lì! Chiaro? Mentre noi, per isolarli, non ci siamo andati. Stiamo vivendo la fine dell’egemonia occidentale e dobbiamo costruire un nuovo ordine, che non sia l’egemonia di qualcun altro, cosa non desiderabile. Ma sia un ordine multilaterale, sostenibile, di coesistenza tra mondi diversi. Qui da noi invece, siamo più impegnati a difendere in modo fazioso un mondo che non c’è più, anziché ragionare su come stare in quello che c’è. Quello vero. Quello di oggi”. Ecco, crediamo che questo sia il cuore della questione e chi ragiona con delle idee su questi temi, condivisibili o meno che siano, non può essere messo alla gogna come fossero i deliri di un pazzo, magari avanti con l’età. Molte delle riflessioni sollevate da D’Alema interrogano, al contrario, profondamente il mondo democratico in generale ed i socialisti in particolare. Sarebbe fin troppo facile per noi seppellire quelle parole, contribuendo a demolire l’immagine sbiadita di un ex capo comunista, levandoci perfino qualche sassolino dalle scarpe ma in tempi complessi e difficili come questi preferiamo raccogliere la sfida delle idee e della pluralità dei punti di vista, come abbiamo sempre fatto nella nostra storia. Crediamo che il ruolo dei socialisti, in particolare a livello europeo, sia proprio quello di creare ponti e dialoghi tra mondi e modelli di sviluppo apparentemente inconciliabili ed incomunicabili, ragionando su una serie di regole stabilite ed universali che possano favorire il passaggio da un mondo occidentale-centrico alla nuova realtà multipolare; mercati etici e dignità dei lavoratori, sostenibilità ambientale del sistema economico mondiale, riforma e nuova centralità dell’Onu rispetto delle sovranità nazionali, rilancio del disarmo nucleare, lotta alla povertà, sono solo alcuni dei fondamentali temi che necessitano di un rinnovato protagonismo dell’internazionale socialista, del partito del socialismo europeo e delle varie realtà socialiste nazionali. Questo, ovviamente, non significa andare con il cappello in mano o con la macchina fotografica a Pechino e a Mosca ma iniziare una seria riflessione sul gigantesco cambiamento in atto nelle alleanze e nelle relazioni internazionali, mettendo definitivamente in soffitta la spocchia di chi ancora crede che il 6% della popolazione mondiale possa impartire lezioni, diktat o, peggio ancora, minacce a miliardi di persone. L’alternativa? I muri fisici e commerciali proposti dal Trump di turno ma temiamo seriamente che la medicina proposta sia peggio della malattia e, potenzialmente, anche molto più pericolosa. Ben vengano pertanto questo tipo di confronti e di dibattiti perché l’omologazione del pensiero unico ci spaventa molto più di una foto di troppo. Anche quella fatta ai nostri avversari storici.