di Andrea Follini
Possiamo dare il nome che vogliamo o che crediamo più opportuno a quanto è successo in questi diciannove mesi in Palestina. C’è chi si offenderà, chi griderà allo scandalo e chi invece converrà. Quel che è certo, e lo diciamo con chiarezza, è che a Gaza si sono oltrepassati dei limiti che raramente, nella storia contemporanea del mondo, si erano visti. Non più una guerra, nella sua pur cruda e reale atrocità, ancora legata a dei valori del guerreggiare che sembravano, per un Occidente ancora legato al passato, comunque dei punti fissi. L’imbarbarimento che ha caratterizzato la lotta verso un intero popolo, quello che il governo di Israele ha riservato nei confronti dei palestinesi, non ha risparmiato nemmeno l’ultimo avamposto sanitario presente nella Striscia. I missili israeliani hanno colpito il pronto soccorso dell’ospedale battista Al-Ahli di Gaza City. D’ora in avanti, non vi sarà più alcuna struttura sanitaria fissa in tutta Gaza. Ma anche per le strutture sanitarie provvisorie non vi è pace: l’ospedale da campo Kuwaiti Field Hospital nella zona di Mawasi è stato colpito dall’aviazione di Tel Aviv. Dalla ripresa del conflitto dopo la breve pausa, nella Striscia non sono più entrati aiuti umanitari. Non sono bastate le epidemie, la distruzione del servizio sanitario, (35 gli ospedali colpiti e resi non operativi dall’inizio del conflitto nel 2023 nella Striscia), i colpi di artiglieria contro le ambulanze, la distruzione delle infrastrutture di comunicazione, il continuo “spostamento” della popolazione da nord al centro, poi a sud, poi di nuovo verso nord, con i campi profughi che oramai sono al collasso (quando non sono essi stessi attaccati dai militari israeliani). A poco finora sono valse le seppur notevoli manifestazioni di cittadini israeliani che chiedono di cessare il fuoco, di mettere fine a questa ecatombe di civili. L’arrivo di un presidente alla Casa Bianca il cui vomitevole apporto al raggiungimento della pace si coniuga con il termine deportazione, sembra aver ridato vigore all’azione di “definizione” pianificata dal governo di Benjamin Netanyahu: Bibi e Donald, due personaggi sulla stessa, identica lunghezza d’onda; con la stessa, chiara e deplorevole visione su quanto deve essere Gaza nel prossimo futuro: soprattutto senza i palestinesi. Per fortuna l’azione dell’Unione europea, che nei giorni scorsi ha stanziato 1,6 miliardi di euro per la ripresa e la resilienza verso l’Autorità Palestinese, sembra dare qualche segnale di interessamento un po’ più incisivo che nel passato. Le dichiarazioni dell’Alto Rappresentante Ue per la Sicurezza di qualche giorno fa hanno ricordato come Il numero di vittime civili, in particolare donne, bambini e operatori umanitari, a Gaza e in Cisgiordania sia inaccettabile e il rischio di fame e carestia sia imminente. L’Ue ha ribadito la sua solidarietà al popolo palestinese ed ha espresso profonda preoccupazione per l’elevato livello di violenza in Cisgiordania, ribadendo la sua opposizione alla politica di insediamento di Israele. Cisgiordania: un fronte del quale troppo pochi ancora parlano ma che è fondamentale che almeno la Ue ricordi. Parole utili, ma che si dimostrano del tutto insufficienti per fermare l’orrore di Gaza. Che ad oggi resta la priorità alla quale si dovrebbe guardare. Se si ritiene che, restare umani, sia ancora un valore.