CHI HA PAURA DELLA DEMOCRAZIA?

di Giada Fazzalari

Quando il Presidente della Repubblica Mattarella, parlando a Genova in occasione dell’ottantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo, con la solennità del caso, ha citato Sandro Pertini, sull’importanza della partecipazione e del voto, che “è l’esercizio democratico che sostanzia la nostra libertà”, aggiungendo che “non possiamo arrenderci all’astensionismo degli elettori, a una democrazia a bassa intensità”, mai avremmo immaginato che, invece, proprio dalle forze di maggioranza di governo sarebbe arrivato l’invito opposto, e cioè quello di a restare a casa l’8 e il 9 giugno, quando gli italiani sono chiamati alle urne per votare i referendum su cittadinanza e lavoro. Scatena perplessità, e un certo sgomento, un incitamento alla diserzione in un Paese come l’Italia in cui l’astensionismo – che certo non è buona prassi per l’esercizio democratico – è ai suoi massimi storici. La linea del boicottaggio istituzionale, chiamiamola così, ha trovato copertura in un po’ tutte le anime della maggioranza: dal più moderato della comitiva, il vice premier e leader di FI Antonio Tajani, a quello meno istituzionale – per usare un eufemismo – Ignazio La Russa. Una strategia politica, quella che invita a non recarsi alle urne (che punta, ovviamente, al mancato raggiungimento del quorum e dunque alla nullità dei quesiti) di cui i partiti di governo sottolineano la legittimità, ma che, a ben guardare, è il sintomo del principio, subdolo e terribile, dell’invito al disimpegno collettivo. E siccome il voto è lo strumento concreto della democrazia, non un accidenti, ne’ un accessorio inutile, chiedere ai cittadini di non andare a votare, è un errore almeno per due ragioni: svilisce l’istituto referendario che, indipendentemente dal merito, in alcuni momenti della storia, ha permesso al Paese di cambiare volto – dal nucleare, ai referendum sul divorzio, all’aborto – e, in secondo luogo, indebolisce la democrazia, che di questi tempi è assai pericoloso (gli inviti estivi all’astensione, in passato, non hanno portato poi così bene). Il silenzio anche mediatico e l’invito al disimpegno sono le armi spuntate di una politica debole che sembra temere le idee di un Paese che spesso ha dimostrato di essere più avanti anni luce di chi lo governa. Nel merito, i quesiti referendari interrogheranno i cittadini su temi non proprio secondari: lavoro e cittadinanza. Del primo si sa. Sul secondo, conviene smontare le convinzioni di chi prefigura invasioni di immigrati irregolari – ciò che vorrebbe far passare una certa destra – o chissà quale capovolgimento dell’ordine costituito, che la riforma proposta è un passo verso la semplificazione del processo di cittadinanza – da 10 a 5 anni – dato che restano in vigore tutti gli altri criteri, tra cui, per esempio, l’essere incensurati. E di fatto ripristinerebbe, pochi lo hanno rilevato, un principio che già conoscevamo e che è stato stabilito oltre cent’anni fa, nel Regno d’Italia, anno 1912, con il quarto governo Giolitti. Il dubbio legittimo è che cent’anni fa fossimo più avanti di adesso. Il che non lascia ben sperare su quelle conquiste di civiltà che sono necessarie oggi più che mai. Chi ha paura della democrazia?

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