Anche seicento ufficiali israeliani chiedono a Netanyahu di fermare l’orrore

di Lorenzo Cinquepalmi

Questa guerra non è più una guerra giusta e sta portando lo Stato di Israele a perdere la sua identità”. Sono parole di pietra, perché le scrivono e le firmano seicento generali e alti ufficiali in congedo dell’esercito e dei servizi di sicurezza. Il fatto di provenire da alti dirigenti non più operativi lascia intatta la portata enorme dell’atto, perché chi ha passato, in Israele, una vita nell’esercito o nel Mossad non è mai veramente fuori, e se la pensione gli conferisce una libertà di parola preclusa a chi è in servizio attivo, non c’è dubbio che il pensiero che esprime rifletta fedelmente quello dei colleghi ancora in armi. Se un pezzo così importante dello Stato israeliano decide di prendere pubblicamente una posizione tanto netta, vuol dire che la situazione interna al Paese non regge più, percezione confermata dal fatto che, nel farlo, i seicento non si rivolgono, come sarebbe naturale, al capo dell’esecutivo o al capo dello Stato, ma al capo di uno Stato estero, chiedendogli di riportare alla ragione la guida impazzita della loro patria. Sono uomini come Ami Ayalon, ex direttore dello Shin Bet, il servizio segreto interno, come Tamir Pardo, Efraim Halevy, Danny Yatom, tutti e tre ex direttori del Mossad, il servizio segreto esterno, e come Ehud Barak, Moshe Bogie Ya’alon, Dan Halutz, tre ex capi di stato maggiore delle forze armate, il primo anche ex primo ministro. Una parte essenziale della classe dirigente israeliana, che ha capito come sia l’esistenza stessa dell’idea di Israele a essere in pericolo, perché lo stato nato dal sogno sionista non è un’entità centenaria cementata da consuetudini e tradizioni, e se perde la carica di idealità che l’ha generato e ne ha difeso l’esistenza nei decenni delle guerre arabo-israeliane, rischia il collasso culturale e ideologico. Come hanno scritto i seicento: la perdita d’identità di Israele. La base ideologica di Eretz Israel è scolpita nella sua dichiarazione di indipendenza, enunciata da David Ben Gurion il 14 maggio 1948: “lo stato sarà fondato sulla libertà, sulla giustizia e sulla pace, come predetto dai profeti, e assicurerà completa uguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti senza distinzione di religione, razza o sesso; garantirà libertà di religione, di coscienza, di lingua, di istruzione e di cultura; preserverà i luoghi santi di tutte le religioni e sarà fedele ai principi della Carta delle Nazioni Unite”. Ben Gurion era un socialista, come Golda Meyer e Moshe Dayan; Weizmann un liberale moderato, Moshe Sharett un sindacalista; tutti incarnavano comunque l’ideale di uno stato basato sull’eguaglianza e sulla difesa dei diritti sociali e civili. È proprio questo il tessuto che ha tenuto insieme il popolo israeliano e, di conseguenza, il suo Stato, ed è la lacerazione di quel tessuto da parte del governo Netanyahu a far temere all’intellighenzia di Tel Aviv che collassi il patto sociale realizzato sull’ideale fondativo di Israele. Se i cittadini smetteranno di credere, come sta accadendo, che il loro Paese sia nel giusto, potrebbe essere la fine. La condotta delle operazioni sta macchiando forse irreparabilmente la più amata delle istituzioni pubbliche: l’Idf, la Forza di Difesa israeliana, quell’esercito di popolo in cui non solo i residenti ma anche gli ebrei di mezzo mondo vanno a prestare servizio. Chi si sente figlio della dichiarazione letta da Ben Gurion e fratello dei soldati che hanno saputo resistere a tutto perché erano nel giusto, come si può sentire vedendo le stragi di donne, di bambini, di gente in coda per il pane, di affamati ridotti a larve. Chi ha pianto sulle immagini del ghetto di Varsavia come può reagire alla visione dell’umanità straziata a Gaza da un esercito che si era sempre mantenuto nel giusto? L’alibi della difesa non regge più, se quegli stessi seicento, alquanto competenti in materia, giungono a scrivere che “Secondo il nostro giudizio professionale, Hamas non rappresenta più una minaccia strategica per Israele e la nostra esperienza ci dice che Israele ha tutto ciò che serve per gestire le residue capacità terroristiche, a distanza o in altro modo”. Quando il popolo comincia a chiedersi perché il governo fa questo, e l’intellighenzia del potere mostra di non considerare più il governo in carica come interlocutore politico, significa che la crisi del sistema è irreversibile. L’occupazione del potere da parte di uno spregiudicato ed egocentrico malversatore come Netanyahu, in asse con una minoranza reazionaria ultrareligiosa e famelica, è percepita, evidentemente, da quella stessa intellighenzia come non rimediabile con i normali strumenti della dialettica politica o elettorale. La lettera dei seicento a Trump, indipendentemente dal fatto che si possa davvero immaginare un utile intervento del destinatario, è uno squillo di tromba che chiama le coscienze d’Israele a scendere definitivamente in campo per salvare la democrazia, la libertà, il Paese stesso. Uno squillo di shofar che riporti Israele al suo destino di pace e di tolleranza.

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