di Lorenzo Cinquepalmi
Ha recentemente trovato una certa eco di stampa l’iniziativa dell’ex ministro e sindaco di Roma Gianni Alemanno, dallo scorso capodanno carcerato a Rebibbia, che, insieme a un detenuto modello dello stesso carcere (modello perché in carcere si è messo a studiare, si è laureato e svolge attività lodevoli), ha indirizzato una lettera al Ministro della Giustizia Nordio, al viceministro e ai sottosegretari (compreso il camerata Delmastro, quello che afferma di godere della sofferenza dei detenuti). La lettera, in modo anche un po’ timido, elenca una serie di problemi e di deficit del sistema giustizia/carcere, del quale, a onor del vero, lo stesso Alemanno è un esempio abbastanza emblematico: affidato in prova ai servizi sociali per una condanna modesta, gli sono contestate delle violazioni dell’orario di rientro serale al suo domicilio, violazioni riconducibili non alla commissione di illeciti ma allo svolgimento di attività politica, e anziché essere raggiunto da un richiamo all’ordine, come avviene generalmente, viene arrestato la notte dell’ultimo dell’anno e portato in carcere. La sintesi della vicenda Alemanno ha senso se la si legge come espressione della ferocia da cui è permeata l’esecuzione penale, e in buona parte anche l’amministrazione della giustizia, nella nostra povera Italia. Nonostante fin dall’elaborazione della Costituzione, dal 1946 al 1948, la funzione della condanna di chi commette reati sia stata individuata nella rieducazione del condannato, con il ripudio di qualsiasi trattamento disumano e degradante, l’esecuzione delle pene rimane improntata esclusivamente all’afflittività (per il godimento del camerata Delmastro che, sia detto per inciso, con Alemanno ha una ruggine fin dal 2004, e quindi della carcerazione dell’ex ministro probabilmente gode due volte). Non si riesce a far entrare nel patrimonio culturale degli italiani, e quel che è peggio della politica italiana, che il carcere è uno strumento di esecuzione delle pene meno compatibile con la rieducazione e il reinserimento sociale del condannato, e che la detenzione in carcere, per rispettare la Costituzione, dovrebbe essere imposto solo quando l’esecuzione della pena riguarda condannati la cui pericolosità sociale rende qualsiasi alternativa imprudente e incompatibile con la sicurezza dei cittadini. Per restare all’esempio di cui sopra, è forse il caso di Alemanno? E, nel contempo, è forse il caso delle migliaia di carcerati che scontano pene per reati non violenti senza che la loro libera circolazione prima dell’esecutività della condanna, quasi sempre successiva di anni rispetto alla commissione dei reati, abbia esposto chicchessia al pericolo della torsione di un capello? La realtà è che dovremmo entrare nella mentalità, e soprattutto far entrare gli italiani nella mentalità per cui colui che commette un reato paga il prezzo del suo errore con una privazione della libertà, che gli faccia ricordare per un certo tempo in cosa ha sbagliato, ma usa quel tempo per fare qualcosa in favore di chi, dal suo reato, ha avuto un torto, e, soprattutto, a ricostruire la sua vita in modo da non cadere più nell’errore. Chiunque può capire che mettere un condannato a marcire in un carcere fatiscente e sovraffollato, a soffrire e basta, farà forse godere il camerata Delmastro ma di sicuro non fa neanche un po’ di bene alla società perché qualsiasi essere vivente, trattato in qual modo, può solo peggiorare: la ferocia genera ferocia. I dati sulla recidiva sono chiari: il numero di condannati che, scontata la pena, commette nuovamente un reato è di quindici volte inferiore tra coloro che sono stati ammessi a misure alternative rispetto a coloro che hanno fatto la galera. In astratto, questa cultura nel nostro ordinamento c’è, ma ancora una volta il caso Alemanno dimostra il peso di quel “in astratto”: oggi l’accesso a un modo diverso di scontare la pena dipende esclusivamente dalla valutazione individuale che, per ogni singolo condannato, dovrebbe essere fatta dal sistema costituito da servizi sociali e tribunali di sorveglianza. Un sistema troppo complicato e ingolfato per riuscire a funzionare come dovrebbe, appunto, in astratto. Fin dall’autunno scorso abbiamo sostenuto che il cambiamento del sistema debba essere radicale e prevedere che, per i reati non violenti, la pena debba essere sempre, automaticamente, la detenzione domiciliare, addirittura comminata dal giudice con la sentenza di condanna. Invece, il nostro sistema di esecuzione penale impone sempre un passaggio in carcere, inevitabilmente lungo nelle attuali condizioni di collasso del sistema, di fatto vanificando i principi alla base degli strumenti istituiti per attuale l’articolo 27 della Costituzione. Con il risultato di infliggere, per la gioia del camerata Delmastro, solo trattamenti contrari al senso di umanità e non di esprimere la minima tendenza alla rieducazione del condannato. Da socialisti (un po’ sognatori) testardi quali siamo, continueremo a dire e a scrivere che una società migliore comincia dal modo in cui tratta coloro che sbagliano.