di Stefano Amoroso
Un aumento dello stipendio lordo di 3,33 euro al mese per i redditi fino a trentamila euro annui, che crescono fino a 36,67 euro al mese per i redditi di cinquantamila euro. Parliamo sempre di aumenti lordi. E quindi, anche con il massimo dell’aumento, il netto che resta in tasca è pari al massimo al costo di una pizza con bibita. Questa è la “riforma epocale” dell’Irpef sbandierata dalla Meloni. Abbiamo già scritto, su queste pagine, a proposito delle scelte poco coraggiose in termini di crescita e dell’ossessione malata del Governo per il rapporto tra deficit e Pil. Che va sicuramente tenuto sotto controllo, visto il livello di debito che ha l’Italia, ma non a scapito della crescita. E infatti, nel recente passato, nessun Governo, nemmeno lo scalcagnato Conte Uno, con Salvini e Di Maio come vicepresidenti, si era sognato di tralasciare il fondamentale tema della crescita. Il Governo Meloni, invece, lo fa. Probabilmente nella convinzione che bastino i cantieri aperti grazie al Pnrr (che peraltro, come ha recentemente certificato il Financial Times, sono stati finora finanziati solo al 44%), e che il resto verrà di conseguenza. Il resto, ce lo dice l’Eurostat, è la crescita italiana complessiva del Pil: + 0,6% nel 2025 e + 0,8% nel 2026. Numeri che ci condannano ad essere ultimi tra i grandi Paesi della Ue e nella parte bassa della classifica complessiva. Basteranno i cantieri del Pnrr, che peraltro finirà a giugno del 2026, quando, tra pochi mesi, cominceranno ad emergere i dati delle esportazioni italiane, che si prevede subiranno una brusca frenata? Anche perché, se quattro dei nostri cinque principali clienti sono in crisi (Francia, Germania e Regno Unito) o mettono dazi elevati alle importazioni (Stati Uniti d’America), non restano molti altri sbocchi di mercato. Qualcuno, a via XX Settembre, sede del Ministero dell’Economia e delle Finanze, ha previsto questo scenario, assai probabile? Cosa accadrà a Pnrr finito e con l’export che batte la fiacca? Riusciremo a segnare un altro record di occupati? E come, in che modo? Sarebbe stato opportuno cominciare a rinforzare i consumi interni, come ha fatto la Spagna a suo tempo (ed i risultati, vista la previsione di un robusto +2,6% nel 2025 ed un +2% nel 2026, gli danno ragione). Poi c’è il drammatico dato Istat di un nuovo, ulteriore calo delle nascite in Italia. Come mai gli italiani non vogliono più far figli? Sono davvero così disinteressati alla prole da preferire spendere soldi in vacanze, interventi estetici ed altre amenità? Sono così poveri da non poter mantenere i figli? Nulla di tutto questo, a riprova che la gran parte della nostra classe dirigente legge i fenomeni sociali di lungo periodo con un’ottica di cortissimo respiro. Gli italiani, in realtà, oggi come ieri, i figli continuano a volerli ed a farli con piacere. Il problema è che, visto che negli ultimi dieci anni abbiamo perso circa duecentomila italiani ed italiane giovani ed in età riproduttiva, che si sono trasferiti all’estero per studiare e lavorare e non sono più rientrati in patria, i figli li hanno fatti, certo che li hanno fatti: ma all’estero. La domanda è allora cosa stia facendo questo Governo per favorire il rientro di questi giovani, tra cui alcuni qualificatissimi, dall’estero? Ben poco. Un Paese con salari bassi e che investe poco in innovazione, ricerca e formazione post-universitaria, è assai poco attrattivo per i professionisti del Terzo Millennio. Non è un caso se, tra coloro che espatriano, ci sono molti figli di emigranti che arrivarono qui da giovani. L’Italia, infatti, negli anni Novanta ed ancora all’inizio del nuovo Millennio, era un Paese attrattivo per tanti cittadini dell’Europa centro orientale, del Mediterraneo e dell’America Latina. Aver fallito nell’integrazione di quei migranti, che con fiducia ed ammirazione per lo stile di vita italiano si erano trasferiti qui da noi, ha come conseguenza che i loro figli, nati in Italia ed italiani a tutti gli effetti, vanno via dal Paese alla prima occasione. E non tornano facilmente. Per far fronte a queste sfide epocali, ed a questa perdita di giovani che rischia di essere un serissimo problema per la crescita futura del Paese, avevamo a disposizione il Pnrr. Tuttavia, avendo deciso di tagliare le spese per l’innovazione previste nel piano, abbiamo perso una grande occasione per colmare la distanza con i Paesi più innovativi del mondo, che sono tutti i nostri principali competitori. L’Italia è, infatti, al ventottesimo posto nella classifica annuale mondiale dell’innovazione, e di questo passo non può che peggiorare. Però, grazie al Pnrr, avremo il Ponte sullo Stretto di Messina. Chi si contenta, gode.



