di Giada Fazzalari
Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica all’Università di Bologna, tra i più intelligenti e lucidi intellettuali italiani, un maestro della scienza politica, in questa intervista all’Avanti! della domenica fa un’analisi del voto regionale e dell’alto astensionismo registrato, degli scontri tra maggioranza e opposizione sui conflitti, offrendo il suo punto di vista sull’attuale situazione politica nel nostro Paese. Pasquino è autore di un recente e prezioso saggio sul potere e le ambiguità delle riforme: “In nome del popolo sovrano”.
Professore, è un’epoca segnata da conflitti in tutto il mondo ma in Italia sembrano infiammare polemiche da talk show. Cosa pensa delle parole della Presidente del Consiglio che ha paragonato la sinistra italiana ai terroristi di Hamas?
«È stata una uscita penosa, riprovevole, da dimenticare il prima possibile. Forse questo è uno dei pochi casi in cui chiederei ad un politico di chiedere scusa, perché è una frase intollerabile. Quindi si dovrebbe rimangiare quell’espressione e fare un altro tipo di propaganda».
Nelle ultime settimane è emerso, più o meno con toni simili, il caso Francesca Albanese. Lei che idea si è fatto?
«Che evidentemente cercava pubblicità, l’ha ottenuta fin troppo; forse non dovremmo più parlare di lei. Però rivela la sua mancanza di conoscenze di come si trattano fenomeni politici complessi e rivela forse qualcosa di più, cioè che avevano ragione coloro che criticavano alcune delle attività dell’Onu perché evidentemente c’erano troppi simpatizzanti, non solo per i palestinesi, ma anche per Hamas, cosa molto brutta che dà ragione ai critici».
Però c’è da dire che Francesca Albanese, da relatrice speciale dell’Onu, ha difeso quasi in solitudine una posizione che andava nella direzione dell’autodeterminazione del popolo palestinese e contro la strage di civili a Gaza…
«Si è comportata da estremista. Ha deciso di cavalcare un’onda favorevole, abbiamo visto le grandi manifestazioni pro Pal, ma in Italia lei arriva e si mette sulla cresta dell’onda alla ricerca di pubblicità, di visibilità, cosa di cui non aveva bisogno, ma che poteva ottenere in altro modo, esattamente come dice lei, e cioè pubblicizzando quello che aveva fatto di importante per la Striscia di Gaza a favore dei palestinesi».
Recentemente la Ministra Roccella, intervenendo ad un evento organizzato all’Unione del Comitato Ebraico Italiano, aveva definito i viaggi di istruzione ad Auschwitz delle “gite” realizzate con l’obiettivo di dimostrare che l’antisemitismo era una questione solo fascista…
«Un’uscita molto infelice che rivela che la ministra Roccella non conosce abbastanza la storia di Auschwitz, quella dell’antisemitismo, e in definitiva non conosce abbastanza la storia. In questi casi è meglio tacere piuttosto che esibirsi su terreni scoscesi che vanno fuori controllo, perché rischia di scivolare in un buco nero dal quale potrebbe non riemergere più».
Questi casi che abbiamo appena citato rivelano però un problema di fondo, e cioè che ultimamente i toni si sono alzati, tanto che il ‘terreno’ della politica è diventato una specie di ring tra forze di maggioranza e di opposizione. Nella storia recente, è sempre accaduto?
«No, non è sempre accaduto, il linguaggio del democristiano era felpato, quello di Togliatti era sarcastico, quello dei socialisti, lo dico con convinzione, era un linguaggio colto, che rivelava conoscenze della storia, della politica, della scienza. Tutto questo finisce più o meno nel ‘92-‘94. Chi inaugura il nuovo linguaggio è Berlusconi e alcuni dei suoi programmi televisivi, gente come Sgarbi aveva un modo di esprimersi tremendo, di cui possiamo fare meno, se riuscissimo a ricostruire davvero un linguaggio decente per interagire con le persone, usando un po’ più il senso dell’umorismo e meno invece la cattiveria, la stupidità».
Un tempo, indipendentemente dal linguaggio, si faceva elaborazione politica, si comunicava anche in modo ragionato, serio. È un problema solo di linguaggio o di contenuti?
«Il linguaggio riflette la carenza di elaborazione culturale, tanto che spinge i politici a cercare delle parole estreme per avere visibilità, perché non c’è un’idea dietro, ma soltanto un insulto, un’offesa. Se i linguacciuti avessero un’idea elaborerebbero l’idea e quindi cambierebbe il tipo di linguaggio».
Accade solo in Italia questo cambiamento?
«No, anche in altri Paesi, soprattutto negli Stati Uniti che imperversano con il loro linguaggio pessimo, in particolare quello di Trump. È difficile uscirne perché oramai ci sono delle bolle nelle quale questi linguaggi penosi si riproducono rapidamente e non entrano in contatto con le bolle “buone. I giornalisti veicolano preferibilmente coloro che dicono delle cose assurde perché hanno visibilità invece di coloro che cercano di pacificare, precisare, chiarire, di illuminare il senso del discorso».
A proposito di Trump: i rapporti tra Usa e Italia come sono, allo stato attuale?
«Noi siamo un Paese di medie dimensioni, non particolarmente importante e abbiamo bisogno degli Stati Uniti. Quello che è cambiato è che Giorgia Meloni utilizza il suo rapporto preferenziale con Trump come una mazza contro coloro che non sono con l’America e con la visione di un’America fortemente conservatrice. Lo fa nell’ottica di essere contro la sinistra che non ha questo rapporto e neanche vorrebbe averlo. Però di cambiamenti veri e propri non ne vedo strutturalmente. Noi in qualche modo abbiamo bisogno degli Stati Uniti e dobbiamo tenerceli buoni. Ingoiamo qualche rospo, come per esempio la politica sui dazi».
Sulla politica interna. Si è appena svolta la prima tornata elettorale regionale: Marche, Calabria, ora Toscana. Ma una delle parole d’ordine è stata astensionismo.
«L’astensionismo è un fenomeno complicato che deve essere spacchettato: ci sono coloro che non votano più perché non si fidano dei politici, perché hanno avuto delle delusioni, perché li ritengono corrotti, incapaci e incompetenti. Questo è un gruppo di persone che qualche volta potrebbero tornare a votare, se ci fossero dei politici e delle politiche capaci di mobilitarli. Poi ci sono coloro che non possono votare per ragioni fisiche, sono uomini anziani, persone isolate, studenti all’estero. Questi voti possono essere “resuscitati” se ci fosse per esempio il voto per posta. I politici fanno il pianto da coccodrillo e poi non cercano gli strumenti tecnici per favorire il voto. E poi c’è una certa componente di coloro che non votano perché molto semplicemente la politica non cambia la loro vita: sono uomini e donne che hanno fatto una buona carriera, hanno delle grandi prospettive di successo. E poi c’è un ultimo gruppo di persone che sono coloro che non vanno a votare perché non sono stati raggiunti dalla propaganda dei politici: la caduta dei grandi partiti ha significato che troppe persone non fanno più politica e quindi non raggiungono altre persone, non gli spiegano che è importante andare a votare e così via».
Quindi una condizione che non cambierà?
«Se i partiti davvero si ricostruiscono, se ci sono persone che fanno politica non soltanto per ottenere delle cariche e occupare delle poltrone, ma semplicemente perché gli piace convincere della bontà delle loro idee, delle loro visioni e dei loro programmi, forse recupereremo una parte di astensionismo».
Come esce la sinistra dopo queste elezioni regionali?
«Che in Toscana vincesse non c’erano dubbi e ha vinto anche bene, sono contento. Sono persino contento che sia andata bene la lista “Casa riformista”, dove c’erano i socialisti, anche se non sono un simpatizzante di Renzi. L’altro punto rilevante però è che ha perso dove non doveva perdere. La sinistra non doveva perdere le Marche e allora deve interrogarsi di più sulla scelta del candidato, sul tipo di campagna elettorale che ha fatto, sul tipo di alleanze. Non so se le Marche sono l’Ohio dell’Italia, però non è stata combattuta una battaglia in maniera tale da poterla vincere effettivamente».
Guardando alle politiche, una nuova sinistra è possibile?
«Un’altra sinistra è possibile se davvero la sinistra decidesse di fare il suo mestiere, che è quello di convincere, di praticare alcune idee, di dibattere, di entrare davvero nel merito delle questioni, anche controverse, di diventare pedagogica come è stata la sinistra italiana nel corso del tempo e cioè di dire: “vi ascoltiamo, siamo al vostro servizio, ci dite che cosa bisogna fare e noi vi spieghiamo perché si può o non si può”. Ci vorrebbe una sinistra più presente sul territorio, dialogante. Questa sinistra pedagogica non la vedo».
Un tempo questa sinistra pedagogica c’era?
«Riccardo Lombardi era un grande pedagogo, altrettanto Antonio Giolitti e persino Craxi, seppure con uno stile autoritario che non giovava a lui. Peccato».



