Le urne vuote e le tasche piene

di Stefano Amoroso

Forse sarà vero che gli elettori toscani, convinti dalle parole di Eugenio Giani, siano andati a votare in Lombardia, visto che secondo il Presidente uscente della Regione Toscana la sua regione confina con quella guidata da Attilio Fontana. Memore, forse, della grandeur medicea, infatti, il Giani di Firenze, durante una conversazione radiofonica, aveva allargato i confini della sua Regione fino al Po: succede sempre più spesso, e non solo a lui, in epoca di grandi sconvolgimenti geopolitici e di guerre. Scherzi a parte, l’affluenza alle urne in Toscana è crollata di 15 punti percentuali rispetto alle scorse regionali (48 contro 63%) e questa è una conferma, dopo la bassa affluenza delle regionali di Marche e Calabria, che ormai gli italiani hanno divorziato dalle urne. Il Paese non è abituato ad un’affluenza così bassa, anche se si tratta di una deriva che viene da lontano: alle Politiche del 1992 andò al voto l’88% degli aventi diritto, che sono diventati meno del 64% nel 2022. E l’impressione è che non si sia ancora toccato il fondo. Naturalmente ci sono delle motivazioni contingenti che spiegano il tonfo dei votanti in Toscana rispetto alle precedenti elezioni regionali: nel 2020, infatti, si votava in contemporanea anche il referendum per la riduzione dei parlamentari. Inoltre, il voto in contemporanea per sette Regioni, tra cui la Toscana, aveva trasformato quelle elezioni in un test nazionale. Infine, ma non meno importante, la guida della Regione era percepita come più contendibile tra Giani e la sua sfidante, Ceccardi. Tutte osservazioni valide, ma che potrebbero spiegare, al limite, un calo vistoso in una singola elezione regionale, e non un crollo generalizzato da Nord a Sud. È un dato di fatto che siano sempre meno gli elettori che vanno a votare. Tuttavia, se questo è vero in generale, bisogna sottolineare che sono soprattutto le elezioni europee e quelle regionali ad essere maggiormente snobbate dagli elettori. Come mai? Probabilmente perché, in entrambi i casi, i cittadini non percepiscono direttamente il ruolo degli eletti come decisivo per la loro vita quotidiana. Infatti le Regioni, a differenza dei Comuni o dello Stato, solitamente erogano servizi attraverso aziende partecipate, o privati in concessione, o agenzie o delegando ai Comuni, singoli o associati che siano. Il paradosso è che funzioni di primaria importanza (pensiamo alla sanità pubblica ormai regionalizzata) sono gestite amministrativamente da enti e persone di nomina politica, ma che hanno un’ampia autonomia gestionale per la durata del loro mandato. Cosa accade se la politica che li ha nominati ha una legittimazione debole o addirittura inesistente? Che i gestori ed amministratori più furbi, più capaci di tessere relazioni e più “ammanicati” nel sistema diventano praticamente inamovibili. Mentre il costo della loro eventuale cattiva gestione ricade quasi sempre sull’assessore di turno e sulla giunta di cui fa parte. Si arriva, così, al paradosso di Regioni in mano ad un gruppo di dirigenti ed amministratori di lungo corso, legati tra di loro, che hanno in mano le sorti della legislatura e fanno il bello ed il cattivo tempo. Al punto tale che sono loro, da nominati, in grado d’influenzare la politica, e non il contrario. Qualcuno ha descritto il Pci degli ultimi anni Ottanta, prima della svolta della Bolognina, come un partito nel quale si poteva mettere in discussione Marx, ma non le nomine fatte all’Asl di zona. Probabilmente era un’esagerazione, ma fotografa la deriva amministrativistica e di pura gestione del potere da parte dei partiti sul finire della prima Repubblica. Indebolite le ideologie, messi da parte gli orizzonti ideali, insomma, restano le nomine e le concessioni da dare. Non stupisce, quindi, che ci sia chi proclama a gran voce la morte della vecchia politica e voglia trasformare i partiti in comitati di cittadini che, con pragmatismo e concretezza, discutano delle persone migliori da nominare per ricoprire incarichi pubblici, nella convinzione che l’amministrazione dell’esistente sia ormai la forma più alta di politica possibile. Forse l’unica. In ogni caso, quella più vicina al cittadino. Questa visione giustifica i tagli ai vitalizi, al numero dei parlamentari e tutta un’altra serie di misure restrittive. Attenzione, però, perché la pur doverosa revisione della spesa e lotta agli sprechi non può tradursi nel rifiuto della democrazia come espressione più alta della necessità di disegnare una società migliore ed un Paese più avanzato, per tutti. Altrimenti, pur con le migliori intenzioni del mondo, si sta solo spianando la strada alla corruzione ed alla prossima dittatura.

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