di Giada Fazzalari
Non si fa molta fatica a capire che il protagonista di “Ingrata” (Nutrimenti), il nuovo romanzo di Annalisa De Simone – scrittrice tra le poche, in Italia, ad avere un profilo riformista e non ideologicamente oppositivo – è Ottaviano Del Turco, ultimo segretario del Psi prima della definitiva diaspora, nonché ministro e presidente della Regione Abruzzo, malamente travolto da un’inchiesta giudiziaria che lo ha ferito a morte, anche per l’umiliante silenzio che lo ha accompagnato da parte dei “compagni” (il vero proiettile che uccide chi è vittima di inchieste giudiziarie è sempre il silenzio, e la quasi definitiva scomparsa delle persone ritenute vicine e amiche). I protagonisti di questo romanzo pienamente politico sono due: Tonino Giuliante (appunto, Ottaviano Del Turco), e Letizia (una giovane abruzzese, proveniente, come Giuliante, da un piccolo paese, e più giovane di lui di vent’anni). Letizia incontra Giuliante a Roma grazie all’intercessione del padre e, per il suo tramite, entrerà in un grosso studio dove inizierà a realizzare le sue forti ambizioni. Immediatamente Letizia sente il carisma del Principe (così viene soprannominato Giuliante), e giorno dopo giorno, nel pieno del tracollo della Prima Repubblica, tra di loro nasce una storia d’amore piena di inquietudini esistenziali, morali, politiche. Sullo sfondo, le durezze del potere e dello scontro politico; nel cuore, i tormenti tipici di chi, proveniente da realtà provinciali e marginali, sente tutto il peso morale delle ambizioni, dell’attrazione per il potere, per quella sabbia mobile di cinismo che è Roma, misera e stupenda come sempre. Pur di fare carriera, con il passare degli anni, Letizia tradisce Giuliante, lo allontana (è, appunto, come tanti e tante, un’ingrata); perché evidentemente Giuliante non è così forte al punto da poterla portare così in alto come lei sogna. Ma intanto gli anni corrono, scorrono, scivolano, e avvicinano, come sempre accade, tutte le persone in quel punto della vita che costringe a fare una resa dei conti con le origini, col destino, con la propria vocazione (che è sempre morale, anche quando non sembra). Proprio nel pieno della bufera giudiziaria Letizia si riavvicina a Giuliante (ormai sono trascorsi vent’anni del loro primo incontro), e molte cose sono cambiate. Giuliante vive la sua caduta con disperata dignità, mentre Letizia inizia a pensare alla propria ambizione (che l’ha portata ai vertici dello Stato) con inquietudine, sentendo che la vera partita della vita non si gioca mai all’esterno, ma dentro, nei recessi della mente, lì dove psiche e morale s’intrecciano più strettamente. La fine di Giuliante è atroce: una grave malattia lo spegne crudelmente, fiaccando mortalmente un uomo dalla tempra fiera, regale, battagliera, che emigrò a Roma a quattordici anni, e che rapidamente si fece strada nel sindacato, fino a diventare uno degli esponenti di spicco del socialismo italiano. Più che di risposte, il romanzo di Annalisa De Simone è un romanzo di domande. Cosa significa tradire le proprie origini e gli altri? Dove nasce davvero il demone dell’ambizione? In che modo la provincia si trascina e si mimetizza a Roma anche nei più alti vertici del potere? E cosa significa fare i conti con sé stessi, col proprio destino, con le proprie colpe, con la purezza? La “questione socialista” italiana è anche questo: una resa dei conti morale, un implacabile interrogarsi sulle derive dell’ambizione, sulla colpa, sul tradimento, sulla perdita dell’innocenza. In ultima analisi, non è pensabile pensare all’ultimo socialismo italiano senza questo gravoso senso di colpa, sen za questa consapevole compromissione con la più “sporca” sostanza degli appetiti umani. Proprio come fece Franco Cordelli alla fine degli anni ’90 con “Un inchino a terra” (Einaudi) – il romanzo più potente e importante mai scritto su Tangentopoli (era la storia trasfigurata di Sergio Cusani) – Annalisa De Simone ha allestito un importante romanzo su uno dei temi tabù della letteratura italiana: il potere. La maggior parte degli scrittori italiani sono resistenziali e contro il potere (lo sono a prescindere, perché essere “contro” fa sempre stare dalla parte giusta), e tendono a rimuovere impulsi controversi come l’ambizione, il potere, il danaro. Ecco, proprio come Cordelli, De Simone attraversa con questo suo romanzo limpido e maturo i labirinti più contradditori di questo nostro Paese ammalato di potere e intelligenza, e lo fa senza scorciatoie moralistiche, senza populismi, senza semplificazioni edificanti. Annalisa De Simone fa parte di una sparuta pattuglia di scrittori e scrittrici italiane (tra gli altri, Mario Desiati, Leonardo Colombati, Edoardo Nesi, ecc.) che avrebbe contestato a un immenso scrittore come Leonardo Sciascia quel che disse a un intervistatore che gli chiese quale fosse il ruolo degli intellettuali. A quella domanda Sciascia rispose: “Il ruolo dell’intellettuale è stare all’opposizione”. De Simone gli avrebbe detto (ed ecco spiegato il suo profilo riformista e non “artivista”): “No, il ruolo degli intellettuali è stare al governo”. Per ambizione, certo. Ma principalmente perché compito dell’arte non è avere ragione ed “educare il popolo”, ma sporcarsi le mani senza infingimenti nella dura sostanza della realtà, assumendosi la responsabilità anzitutto morale del mondo così com’è.



