di Stefano Amoroso
ll Def è morto, viva il Def. Dopo quattordici anni di onorato servizio (il primo Documento di Economia e Finanza fu presentato dal Governo nell’aprile 2011, ed era relativo al triennio 2011 – 2013), a partire da quest’anno è stato sostituito dal Documento di Finanza Pubblica (Dfp), presentato alle Camere nello scorso mese di aprile, discusso (assai poco, per la verità) ed inviato alla Commissione Europea per farlo esaminare. Successivamente, lo scorso 2 ottobre, è stato presentato il Documento Programmatico di Finanza Pubblica (Dpfp) per il prossimo triennio. Al di là della questione nominalistica, cosa cambierà davvero per le finanze pubbliche? Dallo scorso anno è in atto una vera e propria rivoluzione copernicana della governance economica europea. Grazie ai nuovi regolamenti 1263 e 1264, ed alla direttiva 1265, i vecchi meccanismi numerici rigidi, quelli decisi a Maastricht, sono stati sostituiti da strumenti più flessibili: piani nazionali strutturali di bilancio, un indicatore operativo basato sulla spesa primaria netta, e finalmente, come era stato richiesto invano da anni, dall’Italia e non solo, percorsi di aggiustamento differenziati. Perché, come ci ha insegnato la vicenda del debito greco, applicare sistemi di rientro del deficit pubblico rigidi e che non tengono conto della realtà socioeconomica, significa andare incontro ad un fallimento quasi certo. Il risultato più evidente della riforma è che si sposta l’attenzione da vincoli rigidi di bilancio a meccanismi che integrano investimento, crescita e sostenibilità del debito, con una maggior discrezionalità, anche se pur sempre controllata. Da questo punto di vista, la legge di bilancio che il Parlamento italiano si appresta ad esaminare, è un’occasione persa: sono previsti pochi investimenti, si delinea un quadro assai incerto per la crescita e, per ora, c’è solo una buona notizia: grazie allo spread basso ed alla promozione delle agenzie di rating internazionali, il debito pubblico italiano è un po’ più sostenibile. La legge di bilancio di quest’anno, infatti, come anticipato sulle pagine di questo giornale, è fatta principalmente da misure di sostegno alle imprese ed alle famiglie in difficoltà, che assorbono il 61% del totale, e da una piccola riduzione fiscale che rappresenta un altro 14,1% delle risorse. La somma supera il 75% delle risorse totali: dunque per tutto il resto, inclusa l’innovazione, la transizione energetica, cultura, sanità, pubblica istruzione ed ambiente, restano le briciole. Il risultato è che i numeri riportati sul Documento di Finanza Pubblica (Dfp) troveranno solo un parziale riscontro su quelli che effettivamente contano, ovvero quelli della legge di bilancio. Infatti, tutte le principali riforme, come quelle per la casa per le famiglie numerose e le giovani coppie, vengono rinviate al 2027 od oltre, e quindi alla prossima legislatura. Sono scelte legittime, naturalmente, ma indicative di una forte difficoltà del Governo attuale ad esprimere una politica economica autonoma, coraggiosa e che consenta una solida programmazione a medio-lungo termine. Certo, meglio fare piccoli passi se non si sa correre. Con le nuove regole europee, tuttavia, si rafforza la pianificazione pluriennale, in particolare con il nuovo “Piano Strutturale di Bilancio” (Psb) nazionale, nel quale ciascuno Stato membro prevede riforme, investimenti e livelli di spesa netta per il periodo. Altri Paesi, come la Germania, hanno presentato piani credibili, che riscuotono il consenso dei mercati, ed hanno subito attratto investimenti da tutta Europa e dal resto del mondo. Certo, la Germania è un Paese a tripla A nei rating internazionali, mentre noi abbiamo la tripla B. Quindi Berlino ha maggiore forza e credibilità nel promuovere riforme e promettere investimenti. E tuttavia anche l’Italia, una volta superata che la stupida rigidità dei parametri di Maastricht è stata superata, potrebbe proporre piani ambiziosi ma realistici, ed attrarre investimenti che farebbero crescere il Pil e dunque, parallelamente, ridurre il deficit ed il debito. E invece, proprio quando sarebbe saggio e doveroso pianificare in maniera seria e lungimirante, si preferisce giocare in difesa e sacrificare ogni investimento al Moloch del rapporto tra debito e Pil. In questo modo si possono anche avere dei piccoli benefici nell’immediato, ma al prezzo di ridurre per lungo tempo il tasso d’innovatività delle imprese, e quindi restare indietro nella competizione internazionale. Per questo Governo, ancora una volta, la sostenibilità dei conti non è il mezzo per fare dei piani d’investimento seri e credibili a medio e lungo termine. Invece lo fanno diventare un fine, anzi il fine supremo, e mostrano così di non capire che viviamo tempi che non consentono politiche di piccolo cabotaggio, né di mera conservazione.



