Intervista a Pietro Perone, autore di “Terra nemica”: « Siani, un giornalista militante per la verità»

di Giada Fazzalari

Era il 23 settembre 1985, quaranta anni fa, ore 21.30, Napoli: Giancarlo Siani è crivellato da una raffica di colpi. Stava rientrando a casa, aveva 26 anni. Sognava di fare il giornalista; ma, in realtà, era un semplice precario. Per anni il delitto resta un mistero. Si fanno mille ipotesi, neppure una convincente. Otto anni più tardi, nel 1993, a poco a poco affiora la verità. E a farla affiorare sono persone che con Giancarlo Siani hanno in comune la giovane età e l’entusiasmo. Giornalisti, innanzitutto. Tra i quali Pietro Perone, oggi caporedattore al quotidiano Il Mattino che, in questa intervista all’Avanti! della domenica, ricorda quando lo ha incontrato per la prima volta, quasi cinquant’anni fa, ad una manifestazione a Torre Annunziata. Giancarlo cronista del Mattino a bordo della sua Citroén Méhari, Pietro leader di un movimento di studenti contro la camorra. “Per anni del delitto non si era più parlato. Era diventato il ‘caso Siani’, una verità che non sarebbe mai arrivata. Si era addirittura parlato di una casa squillo del Vomero su cui si diceva Giancarlo avesse indagato” – racconta Perone -. Poi la svolta: “mandai una collega in Procura a fare una semplice domanda: “il pentito che l’altro giorno vi ha fatto trovare un arsenale della camorra ha qualcosa da dire sul delitto del nostro collega Giancarlo Siani?” Ebbe un sorriso ma capimmo che potevamo indagare e montammo il caso con un articolo in prima pagina che fece il giro di tutti i giornali. Da c’era Zavoli alla direzione del Mattino che ci convocò a Napoli e ci disse: “da ora in poi vi occuperete solo del caso Siani”. Così abbiamo fatto, giorno per giorno, fino alla verità”. “Quindi ho sentito l’esigenza di rispondere all’impegno morale, etico oltre che professionale di provare a capire qualcosa sul perché l’avessero ucciso e soprattutto cercare di individuare gli assassini” – aggiunge Perone.

Che giornalista era Giancarlo?

«È stato il primo giornalista, almeno in Campania, ad applicare un metodo scientifico al lavoro giornalistico. Cioè in anni in cui si raccontava l’omicidio o gli eventi, lui andava alla ricerca di quello che c’era dietro i fatti. Già nel 1985 era in grado di dirti, per esempio, rispetto all’assegnazione di un appalto ad un Comune, in particolare di Torre Annunziata, che quella ditta era collegata a quel clan e dietro quel clan c’era quel politico e le varie ditte satelliti. Giancarlo era molto più avanti rispetto agli altri».

Aveva idea del pericolo che avrebbe potuto correre? Persino quello di pagare con la propria vita la ricerca della verità sulla camorra?

«Era consapevole che rischiava. Ed è andato avanti comunque. Giancarlo faceva parte di quel gruppo di giovani dell’epoca che al giornalismo si sono avvicinati perché credevano che questo lavoro, più che garantire uno stipendio, fosse lo strumento per contribuire a cambiare la realtà. Al giornalismo lui ci era arrivato con forti motivazioni sociali e anche politiche, il suo era un giornalismo militante. Da parte della legalità e soprattutto della verità. Aveva costituito insieme ad altri il movimento dei giornalisti democratici che si battevano per l’accesso alla professione, contestavano il mondo delle raccomandazioni degli amici degli amici, delle schifezze che avvenivano in questa professione e che purtroppo avvengono ancora oggi».

 A Giancarlo è stato dedicato un documentario, prodotto da Combo international in collaborazione con Rai Documentari. È un modo per restituire verità a un giornalista che si è battuto per la verità?

«È un modo per restituire Giancarlo nella sua dimensione vera di giornalista militante. E poi è come se fosse il seguito di Fortapàsc, il film che finisce con l’omicidio di Giancarlo. Quello che è avvenuto dopo non era stato mai raccontato».

Qual è la storia vera?

«Giancarlo non è stato ucciso solo dai killer: ma dalla magistratura che negli otto anni successivi non indagò e fu artefice di clamorosi depistaggi. Dal giornalismo, soprattutto quello napoletano, che ha minimizzato, che ha cercato di deviare, che non è sceso in campo. Giancarlo è stato ucciso da molti suoi colleghi che l’hanno lasciato solo prima e soprattutto l’hanno lasciato solo dopo. La storia vera è quella di un ragazzo di 26 anni che credeva nella verità, che è stato ucciso per questo».

E cosa è cambiato, intanto, nei luoghi dove Giancarlo ha vissuto e lavorato?

«È cambiato pochissimo. Il comune di Marano dieci giorni fa è stato sciolto per la quinta volta per infiltrazioni della camorra. Da Marano sono partiti i killer di Giancarlo. A Torre Annunziata, lì dove lavorava Giancarlo, il comune è stato sciolto tre volte. I clan sparano meno di prima perché fanno molti più affari. Alla pistola ha sostituito la giacca e la cravatta e gode di appoggi da parte della cosiddetta Napoli bene, è infiltrata nella cosiddetta società civile. Come si può dire che sia cambiato qualcosa?».

 

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