di Rocco Romeo
C’è un’Italia che, con l’arrivo del caldo estivo, diventa ancor più invisibile. È quella delle carceri, un mondo chiuso tra mura spesse che non riescono, però, a contenere il grido di dolore che sale dalle celle. In questi mesi la temperatura trasforma i penitenziari in fornaci, moltiplicando disagi e disperazioni. Sovraffollamento, mancanza di ventilazione, scarsità d’acqua: sono condizioni che, in un Paese che si proclama civile, non dovrebbero esistere. Secondo i dati ufficiali, il sovraffollamento medio nelle carceri italiane supera il 133%. Numeri che non sono soltanto statistiche, ma vite compresse, costrette a convivere in spazi angusti e insalubri. In estate, quando il caldo si fa opprimente, questa realtà diventa intollerabile. Le celle, prive di aria e spesso senza acqua corrente, si trasformano in trappole dove la salute fisica e mentale dei detenuti è messa a dura prova. La disperazione dietro le sbarre Questa condizione produce conseguenze devastanti: proteste, atti di autolesionismo, fino ai suicidi, che hanno conosciuto negli ultimi mesi un picco drammatico. Non è solo questione di temperature o di strutture fatiscenti. È questione di assenza di speranza. Un carcere che punisce oltre la misura della legge, che priva della dignità, diventa luogo di annientamento e non di rieducazione. Un problema che riguarda tutti. Troppo spesso si tende a relegare il tema delle carceri alla sfera della marginalità sociale. Come se riguardasse “altri” e non noi. In realtà, il carcere è uno specchio fedele della democrazia: il modo in cui un Paese tratta i suoi detenuti rivela il grado di civiltà della sua comunità. Ignorare il problema significa tradire la Costituzione, che all’articolo 27 impone che le pene non possano consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Politica assente, istituzioni richiamate. La politica, oggi, appare distratta. Eppure la responsabilità è tutta sua: riformare il sistema penitenziario, garantire spazi dignitosi, investire in attività formative e ricreative, dotare le celle di strumenti minimi come ventilatori e frigoriferi, rafforzare i contatti con l’esterno. Non si tratta di privilegi, ma di diritti. Diritti che, se calpestati, minano la credibilità stessa dello Stato. Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ha più volte lanciato richiami netti: il carcere non può trasformarsi in un luogo di perdita di speranza. È un monito che non ammette equivoci. Eppure sembra rimanere inascoltato. Una questione di civiltà e di giustizia. L’emergenza carceraria non è un dettaglio dell’agenda politica: è un banco di prova della nostra coscienza civile. Non intervenire significa accettare che nelle prigioni italiane si consumi, giorno dopo giorno, una violazione sistematica della dignità umana. Il rischio è che la disperazione continui a trasformarsi in tragedia, travolgendo non solo i detenuti, ma anche il personale penitenziario, lasciato a gestire situazioni ingestibili senza strumenti adeguati. Il carcere, ci ricorda la Costituzione, deve essere occasione di recupero, non di distruzione. Restituire speranza, garantire condizioni minime di vita, ridurre il sovraffollamento: sono sfide che la politica non può più rimandare. Perché le carceri non sono “fuori dal mondo”. Sono parte del nostro mondo. E da come le affrontiamo, si misura la qualità della nostra democrazia.