di Andrea Follini
L’arrivo dell’estate segna ogni anno, puntualmente, il ripresentarsi dei tormentoni canicolari: la canzone in reggaeton diffusa dalle radio che fa ballare in spiaggia, il servizio al tg con le raccomandazioni di bere molta acqua e mangiare tanta frutta, e la boutade di Tajani sullo ius scholae. Puntuale anche quest’anno (altro che un treno di Salvini) la necessità di marcare una certa moderatezza da parte del leader di Forza Italia, ha scatenato le ire dei destri del centro destra, con i parlamentari della Lega pronti a ricordare che il tema non è nel programma elettorale e quelli di Fratelli d’Italia che, intervistati sul tema, tendono a glissare infastiditi, preoccupati di non commettere gaffes ed intenti a ripetere, almeno sette volte su dieci parole pronunciate, il nome della premier. Quindi, è da pensare, il tormentone politico estivo, dopo aver tenuto banco per un po’ nelle arene politiche serali, verrà ripiegato e riposto nell’armadio del garage della politica, assieme al salario minimo, alla riforma del mercato del lavoro, al divario nord-sud. Pronto per essere ripescato da Tajani alla prossima estate. Solo che il tema è, in realtà, ben più complesso ed urgente di come ce lo vogliono presentare in questi giorni. Lo abbiamo visto nella recente e sfortunata campagna referendaria: agli italiani è stata raccontata la favoletta che si voleva concedere la cittadinanza al magrebino appena sbarcato dal gommone; i soliti comunisti, ancora una volta protagonisti con il loro permissivismo, dell’invasione dell’Italia. Perché, inutile nascondercelo: siamo a questi livelli qui. Ecco perché non è facile far comprendere come la cittadinanza a chi risiede, lavora, studia da anni nel nostro Paese dovrebbe essere un diritto, per chiudere quel cerchio immaginario dell’integrazione piena del migrante nelle nostre comunità, consentendogli di avere voce, rappresentanza, libertà. Lo ius scholae, cioè la cittadinanza offerta a coloro che, immigrati nel nostro Paese, abbiano completato nelle nostre scuole un intero ciclo scolastico decennale con profitto (!) è ancora poco. Non solo per il vincolo temporale decennale, che già è restrittivo abbastanza e lo abbiamo già visto negli anni passati, ma perché pare una rincorsa al ribasso, una concessione più per dare un segnale, peraltro minimale, piuttosto che credere fermamente in una società multietnica e multiculturale, compiendo i passi conseguenti. E vuole essere certo un segnale, è fuori d’ogni dubbio, questa ormai consueta tiritera di Forza Italia sullo ius scholae; un segnale, al mondo moderato e cattolico, che nel centro destra non vivono solo conservatori sovranisti, ma anche gente di buon senso. Un po’ come quando si parla d’Europa e della necessità di rafforzarne il potere, discorso che fa venire l’orticaria a Lega e Fratelli d’Italia, ma che serve a Forza Italia per tenere il punto, e nascondere sotto lo zerbino il fatto che quegli altri sono comunque i loro alleati di governo. Progetti di legge sullo ius scholae ve ne sono più d’uno già depositati in Parlamento. Quello presentato nel 2022 dal centro sinistra prevedeva che diventasse cittadino chi fosse nato in Italia o vi fosse arrivato prima dei dodici anni; fosse stato residente ininterrottamente; avesse frequentato almeno cinque anni di scuola in Italia (altri testi innalzavano a dieci anni questo limite), anche su più cicli scolastici. Un tentativo di mediazione, certo, e forse proprio per questo una sorta di soluzione tampone. Ma irraggiungibile, almeno fintanto che il tema dell’immigrazione e, conseguentemente quello della cittadinanza, rimane il cardine, il motivo stesso d’esistere, di una destra come quella italiana, che ha la necessità, per sua stessa sopravvivenza, di non affrontare il tema per non perdere quel consenso che, proprio sulla paura delle diverse culture e sulla miopia di uno sguardo che non oltrepassa il cancello di casa, ha costruito nel tempo.