Ex Ilva: a Taranto si rischia la deflagrazione sociale

di Alfredo Venturini

Purtroppo un pensiero conformista continua ad imperversare non solo in Italia. Più che una lotta concreta contro il cambiamento climatico, fatta di innovazione, tecnologia e tutela delle imprese dell’ambiente e della salute, esprime un pregiudizio ideologico, propagandistico, che non considera le conseguenze economiche delle misure assunte e che ha come obiettivo quello di colpire l’industria facendole perdere competitività, fatturato, posti di lavoro. Un pensiero totalitario, imposto, che non analizza il rapporto costi/benefici e condiziona le opinioni pubbliche rappresentando una scatola vuota. È la contraddizione che Taranto vive sulla sua pelle. Non nego la necessità di decarbonizzare le nostre economie, ma contesto il pensiero unico del green deal con tutte le sue contraddizioni e forzature. I sistemi produttivi hanno necessità di avere dei riferimenti precisi ai quali attenersi per essere in regola. Ma il cambiamento procede per gradi, sulla base di regole uniformi, che diventano, di volta in volta, uno standard sostenibile e progressivo, a cui attenersi, in un quadro di certezza del diritto. È questo il punto sul quale fare chiarezza aprendosi alla collaborazione delle Istituzioni ad ogni livello. Un tempo, ormai lontano, l’abbiamo vissuta come “vertenza Taranto”. Il sindacato ne è ben consapevole. Torna ad essere attuale e ne dobbiamo essere interpreti e protagonisti. A Taranto è mancato il pensiero strategico attento alla economia e alla sicurezza, attento agli equilibri competitivi globali dell’acciaio. Si rende necessaria un’operazione di sistema che, come tutti i grandi progetti industriali che attengono ad interessi strategici nazionali, deve vedere coinvolti plurimi attori, pubblici e privati, sulla base di un progetto di politica industriale condiviso, per avviare un processo di pacificazione della nostra comunità territoriale. Purtroppo si continua a fare confusione tra ambientalizzazione e decarbonizzazione; sono due cose completamente diverse. Si dica chiaramente se si vuole l’impianto o la sua morte definitiva. Se lo si vuole, bisogna consentire che funzioni come funzionano tutti gli impianti in Europa, secondo le stesse regole degli altri. Se non lo si vuole, lo si dica chiaramente assumendo la responsabilità di chiuderlo. Spetta al Governo innanzitutto fare chiarezza, a partire dalle risorse necessarie per il risanamento funzionale dell’impianto, ai fini ambientali e di riqualificazione dell’intero hinterland, affidandone la gestione, per il tempo necessario, ad un partenariato pubblico-privato. ll Mimit, Ministero delle Imprese e del Made in Italy, ha precisato che il documento attualmente all’esame delle autorità competenti è un Accordo di Programma interistituzionale, previsto dal comma 15 dell’articolo 29-quater del decreto legislativo n. 152 del 2006 e riguarda la fase preliminare di un investimento industriale, distinto per natura e finalità da quello previsto dall’articolo 252-bis dello stesso decreto. Un atto esclusivamente tra enti istituzionali e locali, destinato a coordinare il rilascio dell’Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA) per impianti di rilevanza nazionale. Non costituisce pertanto un progetto industriale. Il testo predisposto da Mimit e Mase, Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, a seguito del confronto con la Regione Puglia, mira a garantire una valutazione congiunta e coerente per il rilascio della nuova AIA, indispensabile per assicurare la continuità produttiva dello stabilimento tarantino, avviando il processo di decarbonizzazione dell’impianto, che dovrà svilupparsi tra il 2026 e il 2039, con la progressiva dismissione degli altoforni e la sostituzione con forni elettrici a basse emissioni. Una scelta che sarà parte integrante e vincolante dell’AIA, e di chiunque dovesse assumere la gestione del sito nel rispetto delle condizioni ambientali e di transizione industriale stabilite dagli enti firmatari. Qualora non ci fosse il via libera alla nuova AIA, scaduta nel 2023, il Tribunale di Milano potrebbe procedere alla liquidazione definitiva dell’impianto. Altra cosa è l’Accordo di programma ex art. 252-bis, da definirsi quando sarà individuato un soggetto industriale titolare di un concreto progetto di riconversione e sviluppo. Solo allora sarà possibile definire un piano con obiettivi produttivi, ambientali ed occupazionali, condivisi tra imprese, governo ed enti locali. Nella recente campagna elettorale, chi ha rivendicato la chiusura dell’area a caldo, ha perseguito ostinatamente e ciecamente la fine di uno stabilimento che ha rappresentato il 75% del Pil, tra occupazione diretta ed indiretta; ventimila famiglie, solo a Taranto, dipendevano dall’Ilva. Il Sindaco Bitetti “con spirito di collaborazione e nel pieno rispetto del ruolo istituzionale che il Comune riveste”, ha giustamente rappresentato al Ministro Adolfo Urso la necessità di una profonda revisione del Programma interistituzionale, che garantisca alla città e al nostro territorio la tutela ambientale, la salvaguardia della salute pubblica ed il mantenimento dei livelli occupazionali. Una scelta opportuna e doverosa che tuttavia deve avere consapevolezza della deflagrazione sociale che investirebbe la comunità. Chiudere significherebbe condannarla ad essere abitata da ex operai, cassintegrati e giovani senza prospettive.

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