di Stefano Amoroso
Nessuno può dire, allo stato attuale delle cose, come andrà a finire lo scontro totale tra Israele ed i suoi nemici del cosiddetto Asse della Resistenza in Medio Oriente, che fa perno sull’Iran degli ayatollah. Un odio profondo divide in maniera evidente le leadership e gli eserciti dei due Paesi che non vogliono semplicemente vincere una guerra: sognano di annientare l’avversario. Eppure, anche se ricordarlo oggi può fare strano, non è sempre stato così. Anzi. Il popolo ebraico ottenne la libertà dalla prigionia nell’antica Babilonia per merito di Ciro il Grande di Persia, che volle dare agli ebrei la libertà di tornare in Palestina, e lo aiutò a ricostruire l’antico Tempio di Salomone. Ad imperitura memoria del gesto di magnanimità del sovrano persiano, il Vecchio Testamento lo riconobbe, unico sovrano straniero, come messia, ovvero “unto del Signore”. Venendo a tempi più vicini a noi, l’ultimo Shah di Persia, Mohammad Reza Pahlavi, era un grande amico di Israele di cui ammirava lo sforzo di modernizzazione, soprattutto in economia ed in ambito scientifico, che cercò d’importare nel suo Paese. Tutto cambiò con la rivoluzione del 1979 che portò al potere Khomeini e all’instaurazione della Repubblica Islamica d’Iran. Da allora, cessati i rapporti amichevoli, tra Israele e l’Iran si è passati prima ad una guerra di parole, per poi arrivare all’escalation ed ai reciproci bombardamenti attuali. La domanda che viene spontaneo porsi è: perché? Per vari motivi. Innanzitutto, perché l’Iran di oggi è un Paese fortemente polarizzato nello scontro tra campagne e città, tra conservatori e progressisti, islamici radicali da un lato, e moderati e laici dall’altro. Come insegna la storia, per tenere insieme un Paese così diverso, così spaccato ed oppresso da una inefficiente dittatura religiosa, il nemico esterno ha una funzione di collante. Israele, negli ultimi 35 anni, con la tolleranza mostrata nei confronti dei coloni più radicali e fanatici e con il progressivo scivolamento verso una società di tipo etno-religioso, è il nemico ideale per l’Iran, che aspira ad essere la guida di tutte le masse islamiche povere ed oppresse nel mondo, e ritiene, non senza ragione, che l’attuale classe dirigente dei Paesi del Golfo sia troppo molle, corrotta, dedita solo agli affari e totalmente soggiogata dall’Occidente. Quindi attaccare Israele, prima solo verbalmente ed ora anche coi missili, rappresenta per l’Iran il coronamento di un sogno plurimillenario: arrivare sulle sponde del Mediterraneo ed a contatto con i cugini europei, bypassando gli arabi, ritenuti degli esseri inferiori. Specularmente, anche per la destra israeliana attualmente al potere l’Iran rappresenta il nemico ideale: è una repubblica islamica sciita, opprime i diritti delle minoranze e delle donne, è antioccidentale (quindi, per Netanyahu ed i suoi, attaccare Teheran significa poter contare in maniera quasi automatica sul sostegno occidentale). Infine, ultimo ma non meno importante, l’Iran è prevalentemente sciita, corrente religiosa che nel resto del mondo islamico è poco seguita (gli sciiti rappresentano grosso modo il 12% di tutti i mussulmani). Pertanto, visto con gli occhi di Tel Aviv, bombardare Teheran non è la stessa cosa che bombardare un Paese a maggioranza sunnita e dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) attirare simpatie trasversali nel mondo islamico e, soprattutto, arabo. Se questa è l’essenza dello scontro e la matrice dell’odio che divide le classi dirigenti di due Paesi che, invece, avrebbero molto in comune e molti motivi per andare d’amore e d’accordo, non si capisce quale sia la strategia occidentale. Gli Stati Uniti sembrano scivolare sempre più nel ruolo scomodo del gigante incatenato e succube dei voleri del suo padrone ebreo: dopo il fallimento nell’evitare il bagno di sangue a Gaza ed in Cisgiordania, o la guerra in Libano, ora si trovano costretti ad avallare i bombardamenti israeliani a tappeto sull’Iran. Il risultato è che Trump ed i suoi predecessori si guadagneranno l’odio imperituro delle masse islamiche senza, peraltro, avere un ascendente sugli ebrei di tutto il mondo che guardano ormai a Tel Aviv come loro unica fonte d’ispirazione. Il vuoto lasciato dagli americani in Medio Oriente verrà colmato da attori regionali come la Turchia, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi ed altri ancora? È troppo presto per dirlo. Di certo, però, nessuno di questi Paesi sarà disposto facilmente a cedere potere, né ad agire su comando degli Stati Uniti. L’Europa, invece, è divisa tra chi cerca (tardivamente) la pace ed adotta la soluzione dei “due popoli, due Stati”, come la Spagna, ed altri, come l’Italia e la Germania, che sostengono ciecamente Israele, anche e soprattutto perché è cliente delle nostre industrie militari. Un rapporto, dunque, di mero e cinico interesse economico: semplicemente, si fanno affari sulle disgrazie altrui e poi si aspetta la pace per tuffarsi a capofitto nel business della ricostruzione. D’altra parte, come recita l’antico adagio, Francia o Spagna purché se magna. Ecco, qui basta sostituire Francia e Spagna con Israele (sinonimo di finanza ebraica e sofisticate tecnologie) ed Iran (ovvero petrolio e gas a volontà) ed il senso della frase, purtroppo, non cambia.