LA CULTURA E’ UNA COSA SERIA

di Giada Fazzalari

Le polemiche divampate all’indomani della cerimonia dei David di Donatello testimoniano, ancora una volta, l’incapacità della politica – a partire da questa destra di governo – di impostare in maniera virtuosa il rapporto tra politica e cultura. È indicativa, ad esempio, la reazione scomposta del Ministro della Cultura Giuli alle critiche di artisti, intellettuali e attori riconducibili al campo della sinistra. Sarebbe bastata una risata alle battute di Geppi Cucciari, come sarebbe stato sufficiente rispondere nel merito alle uscite di Elio Germano. Lo avremmo considerato un atteggiamento elegante, istituzionale, “giusto” e adeguato per un Ministro della Cultura. E invece, ecco la scivolata di Giuli: “la sinistra pensava che la cultura fosse roba loro, avevano gli intellettuali e li hanno persi, si sono poi affidati agli influencer e ora gli sono rimasti solo i comici” – dice. Bolla come “ciance” le critiche, tra l’altro pertinenti, e considera una “minoranza rumorosa” chi esprime dissenso. Ridurre la sinistra a claque e a barzelletta è stato decisamente un autogoal. Qualcuno ha sostenuto, non senza un po’ di ragione, che sia sintomo di una sorta di complesso di inferiorità tipico di una destra che, appena gli tocchi l’armamentario ideologico, obiettivamente assai scarno, straparla di egemonia culturale. E però, benché il botta e risposta di questi giorni sia divertente, vale la pena di fare una riflessione più profonda per ritrovare le radici di un rapporto ancora mai risolto. Da sempre, in Italia, la politica e la cultura si sono contaminate a vicenda, tant’è che pagine fondamentali della nostra storia contemporanea sono state concepite prima in ambito culturale e solo poi si sono concretizzate politicamente – si pensi, tanto per fare alcuni esempi, al Risorgimento e alla prima guerra mondiale (a tutti gli effetti una guerra “decisa” dal mondo intellettuale). Durante la Prima Repubblica la collaborazione assai stretta tra politica e cultura ha determinato due fenomeni molto importanti: da un lato ha costretto la cultura a stare più concretamente nella complessità dei fenomeni della realtà socio-economica, e dall’altro ha innalzato il livello culturale delle classi dirigenti politiche, che infatti sollecitavano la nascita di riviste e quotidiani e non poche volte costruivano le principali linee programmatiche direttamente sulle riviste di area (la storia politica della Prima Repubblica è anche una storia di quotidiani, di riviste, di convegni, di case editrici, di dibattiti culturali di altissimo livello). Poi, a partire dalla metà degli anni ’90 del secolo scorso, le cose sono cambiate: è cresciuto il ruolo della comunicazione, i partiti sono diventati leaderistici, la post-ideologia ha determinato un generale disimpegno culturale. Il risultato è stato catastrofico: la politica ha iniziato ad alimentarsi principalmente di sé stessa, entrando in una spirale autoreferenziale e politicista, mentre la cultura si è allontana sempre più dall’impegno politico concreto, andandosi a posizionare in un’area astratta dell’impegno, tra ingenuità pre-politica e presunta superiorità morale. Oggi il dibattito culturale in ambito politico è un’opera buffa che sopravvive sotto forma di farsa. Il quartetto Giuli-Cucciari-Germano-Montanari ne è dimostrazione, dicevamo. È rimasto in piedi il vecchio schema delle contrapposizioni ma senza una reale elaborazione di contenuti. Di fatto, tutto si riduce a una lotta tra “noi” e “voi”, finanche tra “comunisti” e “fascisti”, come fossimo ancora fermi a un secolo fa. È rimasto vivo l’automatismo ideologico, ma nel frattempo sono scomparse le idee, la profondità di pensiero, il confronto aperto. La cultura, almeno a partire della “discesa in campo” di Silvio Berlusconi, è diventata una faccenda di cooptazioni, di fiori all’occhiello, di vaneggiamenti astratti su presunte egemonie, come fosse davvero possibile eludere la liquidità e la complessità di questo tempo centrifugo, caotico, policentrico, contraddittorio. La storia dell’“Avanti!”, tanto per concretizzare questo ragionamento, è anche una storia di intellettuali liberi (e non costretti a parlare con la museruola come in altre “parrocchie”) che hanno contribuito a rendere il partito socialista un luogo di confronto serrato in mare aperto. Le pagine culturali di questo giornale hanno ospitato grandi firme (per rimanere alla storia più recente: Paolo Grassi, Franco Fortini, Achille Bonito Oliva, Walter Pedullà, Vittorio Strada, Lino Micciché, ecc.) che hanno provato a cogliere le novità, le contraddizioni, le sollecitazioni e le sfide della modernità, che sempre è da mettere in relazione dialettica con il passato, con le tradizioni. Loro non facevano mai solo cultura (come fosse, la cultura, un luogo astratto, puro, olimpico) ma politica, poiché erano consapevoli che la cultura è fatta di tempo e di alterità, e che il senso ultimo della cultura è sempre lo sguardo verso gli altri, il loro respiro, i loro pensieri, le loro parole. Oggi siamo alla farsa, agli sfottò, alle cooptazioni da album di figurine. Servirebbe, invece, un confronto aperto e serrato tra politica e cultura, per arricchire entrambi, e magari per provare a superare per sempre l’eterna contrapposizione (spesso fittizia, se non pretestuosa) tra guelfi e ghibellini, che è uno dei mali endemici dell’Italia. Quando politica e cultura si separano, purtroppo, tutto si riduce al “noi” contro “voi”, al coro da stadio, alla lista dei buoni e dei cattivi, che è esattamente ciò che intrappola il nostro Paese nei troppi fantasmi del suo passato. Alibi perfetto per non fare i conti con la realtà. Al Ministro Giuli, che ricopre un incarico delicato in un Paese che potrebbe vivere di cultura come l’Italia, un consiglio non richiesto: basta partigianerie, la Cultura, come sa, Ministro, è una cosa seria.

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