Vogliono lo stato di polizia

di Giada Fazzalari e Lorenzo Cinquepalmi

Non sembra passato un secolo. Del resto, lo vediamo chiaramente che gli ammaestramenti e le lezioni che si possono trarre dagli eventi del ventennio tra le due guerre in Europa sono bivalenti e contrapposti: per chi ama la libertà da quelle esperienze nasce una serie di “mai più”, ma per tanti, ormai troppi, da quel tempo nasce invece la spinta all’emulazione delle esperienze di soffocamento progressivo delle libertà civili che ci ha portato a spargimenti di sangue, orrore, sterminio e distruzione. Cent’anni fa, nel nostro Paese, la libertà non l’abbiamo persa nel volgere di una tempesta, come quando arriva l’invasore e dall’oggi al domani tutto cambia. Dalla fine del 1922 all’inizio del 1925 è stato uno stillicidio di progressive e graduali amputazioni dei diritti: a volte attraverso l’introduzione di nuove leggi, a volte con l’adozione di provvedimenti amministrativi, spesso con l’impiego di prassi repressive. Meloni e i suoi devono, evidentemente, esserselo studiato questo modo di procedere: esordiscono con le nuove leggi sui rave party, che si applicano a qualsiasi concentrazione spontanea di persone; poi l’intimidazione poliziesca di sottoporre a schedatura chi grida (…orrore…) “Viva l’Italia antifascista!” di fronte al Capo dello Stato; prosegue con le bastonate a sedicenni che “pretendevano” di manifestare in modo libero e pacifico per la questione palestinese. La gestione dell’ordine pubblico diventa una grande occasione di trasmettere ai cittadini un chiaro segnale repressivo di qualsiasi dissenso, nel mentre che intere brigate di energumeni vestiti di nero si schierano indisturbate e gridano “a noi” col braccio alzato nel saluto romano.

Sulla libertà di stampa si abbatte una gragnuola di colpi: dalle restrizioni normative sulla pubblicabilità di notizie giudiziarie, alle epurazioni nel servizio pubblico, alle querele brandite come scimitarre, agli isolamenti scientifici di giornalisti scomodi (non dimentichiamo che la polizia ha perquisito la redazione di Report). Intanto, la fantasia normativa pare avere perduto ogni ritegno, giungendo a reprimere e a punire, con le norme che andranno in discussione al Senato dopo l’approvazione della Camera, persino il dissenso passivo. Un paio d’anni fa la Cassazione aveva ribadito che in assenza di atti violenti, la semplice mancanza di collaborazione a un’azione impositiva della forza pubblica non poteva essere considerata reato. Con la legge di cui i senatori garantiranno l’approvazione, il dissenso manifestato con la resistenza passiva e non violenta diventerà un crimine. Purtroppo l’opinione pubblica non percepisce il dolore che non ha sperimentato sulla sua pelle, e l’esperienza della perdita della libertà è troppo lontana, in Italia e in Europa, per condizionare ancora gli orientamenti di quei cittadini che, per il volgere delle generazioni, ha perduto completamente il contatto non solo con quel tempo ma anche con coloro che ne hanno avuto esperienza diretta. La maggioranza di chi vota non è figlio e nemmeno nipote di chi ha sofferto le dittature del ‘900 in Europa: tre o quattro generazioni cresciute nella libertà portano in dote un indebolimento degli anticorpi da cui dipende la difesa collettiva e istintiva della libertà. Per contro, attuale e potente è la fascinazione esercitata dagli imperiosi vincenti che emulano, più o meno apertamente, le prepotenze della stagione militaresca germinata dalla prima guerra mondiale. Una stagione che credevamo, sbagliando, fosse tramontata per sempre con la caduta del muro di Berlino. Come cento anni fa, l’Italia è guardata come un modello dalle destre di tutta Europa; come cento anni fa, il potere di polizia ammicca alla violenza dei gruppi di destra e li tollera; come cento anni fa, maggioranze parlamentari nate da leggi elettorali illiberali confezionano norme destinate a ridurre progressivamente gli spazi del dissenso, della diversità, della dialettica; come cento anni fa, l’informazione è posta sotto controllo e piegata a strumento del consenso, della cancellazione di tutto ciò che non si conforma al modello au toritario. Sappiamo come è andata a finire, cento anni fa. La lezione di quell’esperienza è che la progressiva torsione illiberale, e poi liberticida, per realizzarsi ha comunque bisogno dell’inerzia e dell’ignavia di chi, non volendola, tuttavia non vi si oppone nel modo organizzato e coordinato indispensabile per fermarla riattivando la coscienza civile dei cittadini. In una parola, la destra al potere ha bisogno della vacuità dell’opposizione, della sua dispersione, della sua debolezza frutto di particolarismi, egoismi, grettezze e miopie. Le leggi fascistissime, il clima del bivacco di manipoli, fu reso possibile dall’inazione aventiniana. Oggi, l’opposizione al melonismo ha bisogno di leader, parole d’ordine e unità d’azione. Il tempo dei distinguo è finito: o di qua o di là.

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